Mi sono da poco trasferito da Sassari a Bologna per studiare all’Università, e le tante aspettative che avevo riguardo all’accessibilità connessa alla disabilità, sono state in gran parte deluse.
Qualche tempo fa, ad esempio, proprio a Bologna, si sono svolti gli Stati Generali della Mobilità Nuova, ma ho scoperto con rammarico che non sono state invitati come relatori – ma solo previsti possibili interventi in un tavolo di discussione – rappresentanti di associazioni o singoli cittadini o cittadine con disabilità. Non era forse un argomento meritevole di un tavolo apposito o di qualche attenzione in più?
Del resto ciò rispecchia quanto, a livello teorico-concettuale, si può leggere sul Manifesto per la Mobilità Nuova, ove si dice infatti che la mobilità «ruota attorno a quattro perni: l’uso della bici; l’uso delle gambe; l’uso del tpl e della rete ferroviaria nazionale; l’uso occasionale dell’auto (car sharing, car pooling, taxi)». Ma la mobilità non è forse anche qualcosa che tiene in considerazione un tipo di movimento non conforme a queste quattro aspettative? Perché in quel Manifesto e nel Disegno di Legge per una Mobilità Nuova non viene dato neanche un minimo risalto alla questione? Come al solito si tende a mettere la questione disabilità sullo sfondo, come se fosse qualcosa da evitare, perché scoccia le coscienze e i tranquilli sonni degli Amministratori Comunali.
Dal punto di vista comunicativo c’è proprio una falla sull’argomento, dal momento che non vengono nemmeno lontanamente citate le parole “accessibilità”, “disabilità” o “persone con disabilità”.
Purtroppo, mi duole ricordare che la disabilità è anche potenziale: si può cadere, farsi male e finire su una sedia a rotelle oppure si può scoprire di avere una qualche malattia degenerativa; perciò dovrebbe essere qualcosa che sta a cuore anche a chi per il momento la disabilità non l’ha neanche sfiorata. Memento disabiliri: ricordati, cioè, che potresti anche tu un giorno incappare nella disabilità e quel giorno maledirai la tua indifferenza sull’argomento!
Contemporaneamente, in questi mesi, a Bologna ci sono i cosiddetti Cantieri Bobo, un progetto ambizioso di rifacimento delle vie principali della città. Ma esso terrà conto anche delle diverse disabilità? Per esempio, chi è non vedente potrà avere accesso a un percorso tattile? Chi viaggia e vive su una carrozzina si troverà ad affrontare le consuete barriere architettoniche o gli scivoli pericolanti che dovrebbero essere stati costruiti proprio allo scopo di abbattere le stesse barriere architettoniche?
Dal mio punto di vista, abitando in centro città, mi ritrovo a dover fare, sulla mia sedia a rotelle, strade obbligate o addirittura pericolose, perché molte volte devo andare sulla carreggiata, invece di stare sul marciapiede.
Pensavo che Bologna fosse davvero una città a misura di carrozzine, e invece mi devo sempre aggiustare fra i percorsi a ostacoli che offre questa piccola metropoli.
Non sembra proprio una città toccata da un PEBA, che non è un animale mitologico, ma un Piano per l’Eliminazione delle Barriere Architettoniche [tutti i Comuni e le Province dovrebbero avere adottato un PEBA, come stabilito dalla Legge n. 41 del 1986, ma solo una piccola parte di essi ha provveduto, N.d.R.], che richiede tempo e capacità e dovrebbe servire a liberarsi dall’annoso problema delle barriere, dopo avere tracciato una mappa dettagliata di tutte le barriere presenti in città.
Per me sarebbe certamente molto comodo uscire da solo, senza trovare ostacoli sulla strada, e credo sia lo stesso per tante altre persone con disabilità motoria e su una sedia a rotelle. Ma i problemi ci sono perché l’Italia, scriviamocelo francamente, rispetto ad altri Paesi d’Europa è arretrata su molte questioni e risulta ancora come un ambiente inospitale per le persone con disabilità. Ci sono molte buone intenzioni e belle parole, ma i fatti procedono a rilento e le promesse vengono continuamente disattese e smentite dalla realtà.
Basti ricordare che nell’ormai lontano 2007 l’Italia ha sottoscritto la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificandola nel 2009 [Legge 18/09, N.d.R.]. Ma per quanto mi riguarda, che cosa c’è di applicato di quella Convenzione nella mia vita quotidiana? Poco e non abbastanza.
Bisognerebbe partire innanzitutto dal concetto di vita indipendente, in tutte le sue declinazioni e con un’accezione più larga. La vita indipendente consiste nel poter scegliere cosa fare della propria vita in un ambiente accogliente, consiste nell’autodeterminare le proprie scelte con l’aiuto prezioso dell’assistenza di varia natura (per assistenza alla persona con disabilità si intende solitamente quella personale e/o didattica e/o sessuale), all’interno di un ambiente privo di barriere mentali, architettoniche, fisiche e culturali.
Ma tutto ciò non accade e da buon italiano ho dovuto imparare l’“arte di arrangiarmi” in ogni forma possibile, specializzandomi in quella materia chiamata problem solving, perché costretto dalle circostanze sfavorevoli. Cosicché sogno un giorno in cui tutto questo finirà, un giorno in cui le persone con disabilità riceveranno ciò che spetta loro, non nel senso di privilegi, ma in maniera naturale e nemmeno con quella filosofia pietistica che opera quasi per una concessione data dall’alto, come quando si dà uno zuccherino ai cavalli perché sono stati bravi e buoni.
Da quando sono a Bologna, mi accorgo di quanto sia difficile per una persona con disabilità grave come me, cercare di sopravvivere da sola. Ci sono grosse spese da sostenere e se non mi fossi tutelato con un piccolo fondo di risparmi accumulati negli anni grazie alla pensione di invalidità e all’indennità di accompagnamento non ce l’avrei proprio fatta. E questo perché abbiamo un welfare ancora imperfetto e, per come la vedo e la vivo io, si utilizza il criterio economico, anziché guardare al diritto alla salute e al reale bisogno.
Ad esempio, credo che mi ritroverò probabilmente a non poter fare alcuna seduta di fisioterapia, perché non viene concessa o ne viene concessa pochissima, nonostante sia prescritta dai medici per la mia patologia. Com’è possibile, questo?
Altro esempio: quello della carrozzina elettrica. Com’è noto, ogni sei anni chi ha una carrozzina elettrica pagata dall’ASL ne può prendere una di nuova, ma qui a Bologna sembra non essere così, dato che più di una volta dall’Azienda Sanitaria mi è stato prospettato di ricevere una carrozzina “dal magazzino” (e quindi, immagino, usata) o addirittura di fare aggiustare la mia carrozzina vecchia (ciò che per altro, nel mio caso, sarebbe di competenza dell’ASL di Sassari). Ma è giusto risparmiare sulla pelle di chi utilizza questi ausili per vivere?
La citata Convenzione ONU parla poi anche del diritto all’istruzione, un’istruzione senza barriere e garantita per tutti. Anche qui, però, ho incontrato alcuni ostacoli. Mi sono iscritto, infatti, a un corso di Laurea Magistrale all’Università, ma vorrei anche studiare al Conservatorio. C’è però un “piccolo problema”: ci sono delle rampe di scale e perciò le aule non sono assolutamente accessibili alle carrozzine; pur essendo dunque un edificio storico, non dovrebbe abbattere le sue barriere per l’obbligo di accessibilità che hanno tutti gli edifici pubblici?
In tal senso, ho scritto più volte al Conservatorio di Bologna, ma non ho ancora ricevuto nessuna risposta.
A volte, per quanto riguarda il mio rapporto con la società, è come guardarsi in uno specchio che deforma il riflesso della propria immagine; forse occorrerebbe comprarne uno nuovo che funzionasse bene, rispedendo al mittente quello non funzionante. Si rischia cioè, a causa della negazione del diritto a una vita dignitosa, di vedersi in maniera distorta e di autoinfliggersi e sentirsi inflitta una segregazione di cui non vi è certo bisogno.
I contenuti e le linee programmatiche per avere uno “specchio nuovo” ci sono già in quella Convenzione, ma a che punto è l’Italia? Vivo sulla mia pelle l’incertezza dei diritti, di fondi a volte inesistenti o non strutturali e perciò soggetti a variazioni e a volte addirittura ad azzeramenti totali. Ovvero: quel che c’è, so che non basta, ma in futuro potrebbe addirittura non esserci più nemmeno quello. Potremmo anche chiamarla l’epoca dell’incertezza dei diritti: oggi un po’, domani forse.
Cito quanto venne scritto nell’autunno dello scorso anno dal sito del Servizio HandyLex.org, alla presentazione del Disegno di Legge di Stabilità per il 2015: «L’altro Fondo dalle sorti alterne è quello per le non autosufficienze istituito nel 2006 al fine di garantire l’attuazione dei livelli essenziali delle prestazioni assistenziali da garantire su tutto il territorio nazionale con riguardo alle persone non autosufficienti».
Dopo quindi un finanziamento iniziale (2007) di 300 milioni (400 per i due anni successivi), quel Fondo è stato azzerato per due annualità (2011 e 2012), ripristinato per il 2013 (275) e confermato per il 2014 (350 milioni). Inoltre – storia ormai nota – nonostante lo stanziamento sia comunemente considerato inadeguato e insufficiente alla copertura delle acclarate esigenze delle persone e delle famiglie, il Disegno di Legge originario aveva previsto una riduzione di 100 milioni di euro, riducendo il Fondo stesso a un finanziamento di 250 milioni di euro. Contro tale riduzione si erano poi sollevate diffuse proteste e prese di posizione, anche politiche, oltre che associative, che hanno spinto il Governo a individuare nuove risorse aggiuntive.
Alla fine, dunque, il comma 159 del primo articolo della Legge di Stabilità approvata [Legge 190/14, N.d.R.] ha fissato a 400 milioni l’importo per il 2015, indicando però in soli 250 milioni la destinazione per gli anni successivi.
Sofia Righetti, giovane con disabilità, laureata all’Università di Bologna, campionessa dello sport, in un suo intervento alla manifestazione TEDxVerona ha detto che se migliorassero le condizioni dell’ambiente circostante, le persone con disabilità potrebbero creare ricchezza economica e umana per la società, ma per farlo dovrebbero sussistere le condizioni affinché ciascuno esprimesse le proprie potenzialità. La penso esattamente come lei e spero che questo possa essere uno spunto in più, rispetto alle mie stesse riflessioni qui pubblicate.