La sola presenza di una disabilità intellettiva non è di per sé sufficiente a dedurre che la persona interessata non sia in grado di scegliere liberamente se e con chi avere rapporti sessuali. Lo ha stabilito la Corte Suprema di Cassazione (Terza Sezione Penale), con la Sentenza n. 18513/15, annullando il provvedimento di custodia cautelare in carcere, comminato a un uomo gravemente indiziato del reato di abuso sessuale nei confronti di una diciassettenne interessata da disturbo della sfera emozionale e ritardo mentale.
Stando a tale Sentenza, perché si possa configurare una situazione di violenza sessuale è necessario accertare caso per caso se la presunta vittima disponga o meno della capacità di autodeterminarsi.
A parere di chi scrive, si tratta, dal punto di vista dei contenuti, di una Sentenza apprezzabile, nel momento in cui riconosce, in linea di principio, la libertà sessuale delle persone con disabilità intellettiva. Un riconoscimento quanto mai necessario, se pensiamo al forte pregiudizio cui sono soggette le persone con questo tipo di disabilità, considerate da molti e molte, più o meno automaticamente, incapaci di tutto.
Infatti, dietro espressioni come “ritardo mentale” o “disabilità intellettiva” sono ricomprese tantissime situazioni diverse che comportano, per queste persone, livelli di autonomia talmente diversificati, che solo prestando attenzione ad ogni singola persona è possibile capire quali attività essa sia in grado di svolgere da sola, e quali altre attività invece, per essere svolte, richiedano un supporto esterno.
Queste considerazioni, naturalmente, non comportano che tutte le persone con ritardo mentale siano in grado di esprimere un valido consenso a un rapporto sessuale, e neppure devono indurre a pensare che queste persone – anche quando sono capaci di esprimere tale consenso – siano al riparo da abusi e violenze sessuali. Purtroppo non è così, anzi, a dire il vero, essendo più fragili, queste persone sono più esposte a questi rischi rispetto a chi ha maggiori possibilità di difendersi.
La Sentenza della Cassazione ci sta dicendo invece un’altra cosa, ossia che avere rapporti sessuali con una persona con ritardo mentale non costituisce di per sé uno stupro.
Suscita invece come minimo disapprovazione, sotto il profilo linguistico, che nel Codice Penale (articolo 609-bis) si trovino ancora espressioni che si prestano ad essere stigmatizzanti, come «condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa», e che la Sentenza, in modo del tutto acritico, ne riproponga di analoghe (vi si parla infatti di «condizioni di inferiorità psichica della ragazza» e di «persona in stato di inferiorità fisica o psichica»).
Qualcuno dovrebbe spiegare ai Giudici Supremi che avere una disabilità (di qualunque tipo) non determina l’inferiorità della persona, caso mai determina una condizione di svantaggio, che la società dovrebbe cercare di colmare, anche utilizzando, soprattutto nei testi legislativi e giurisprudenziali, espressioni che non siano lesive della dignità della persona.
Su quest’ultimo punto, ho chiesto un’opinione anche a Salvatore Nocera – già vicepresidente nazionale della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), nella quale è attualmente presidente del Comitato dei Garanti.
«Fa bene – mi ha scritto – a richiamare l’attenzione sul linguaggio usato nei testi legislativi e giurisprudenziali. Però, in diritto penale, il termine “condizione di inferiorità fisica e mentale” è usato tecnicamente per mettere in luce l’aspetto del dolo col quale l’autore di una violenza sessuale viene inchiodato alle sue responsabilità di prevaricatore. Lo stesso termine “condizione di inferiorità fisica” viene utilizzato anche per le violenze subite da persona non disabile. È importante dunque capire che il termine “inferiorità”, in gergo tecnico-giuridico, va inteso come debolezza rispetto alla forza preponderante di chi compie violenza, senza alcun valore gerarchico o valoriale. E comunque lei fa bene a richiamare l’attenzione su questi aspetti e chissà che non riesca a contribuire a delle modifiche lessicali che sono espressione di cambiamenti culturali».
Avevo quindi inteso la funzione dell’espressione «condizione di inferiorità fisica e mentale», anche se l’avevo erroneamente riferita alle sole persone con disabilità, ma da un punto di vista linguistico/semantico, che si usi il termine «inferiorità», facendo riferimento a delle persone (che siano disabili o meno è secondario), suggerisce proprio che sia plausibile pensare a una gerarchia tra individui, e ciò rappresenta un’ambiguità che andrebbe superata.
Infatti, chi subisce un abuso o una violenza è certamente una vittima, ma non è “inferiore”… e se proprio volessimo utilizzare questa espressione (ma non condivido questo tipo di impostazione, perché la considero dannosa anche se rivolta a criminali, che sono anch’essi persone), dovremmo fare in modo che l’inferiorità (intendo quella morale) fosse attribuita al reo. Qui invece si usa il termine “inferiorità” (intendendo quella fisica o psichica) ed è riferito alla vittima.
In altre parole, la funzione la capisco, ma l’esito mi spaventa. E, ripeto, da un punto di vista dell’approccio comunicativo, penso che i termini “superiore/inferiore” non andrebbero mai accostati a persone, perché si prestano a pericolose ambiguità. E questo andrebbe evitato a maggior ragione se si considera che si può sottolineare la condizione di svantaggio in cui si trova la vittima, e la gravità del sopruso da lei subito, con altre espressioni, e senza cadere in queste “trappole linguistiche”.
Per approfondire ulteriormente:
° Corte Suprema di Cassazione, Terza Sezione Penale, Sentenza n. 18513/15.
° Roberta Lunghini, Fare sesso con una disabile mentale in sé non è stupro, in «West – Welfare Società Territorio», 7 maggio 2015.
° Anna Madia, Con l’Alzheimer perdi il diritto di fare l’amore con tuo marito?, in «West – Welfare Società Territorio», 13 aprile 2015.