Recentemente l’autorevole rivista inglese «Sport, Ethics and Phylosophy» (Taylor and Francis ed.) ha pubblicato un mio articolo, riguardante un problema che mi stava a cuore da tempo: la scarsa visibilità pubblica dello sport praticato dalle persone con disabilità.
In effetti, vi scrivevo, «le Paralimpiadi e le Olimpiadi oggi sono due eventi distinti» e questa separazione «sembra indicare una separazione morale tra persone con e senza disabilità». Strana separazione, perché una separazione analoga, quella tra lo sport fatto da uomini e quello fatto dalle donne, appare ormai superata e obsoleta: non c’è infatti un’Olimpiade maschile e un’“Olimpiadonna” femminile (questa alterazione del nome fortunatamente non è mai esistita, ma per le Olimpiadi delle persone con disabilità un nome ad hoc – Para.Lympics – esiste!); ma ci sono ancora le “Paralimpiadi”, cosa buona perché è un’arena per lo sport di chi ha una disabilità, ma meno buona se si pensa che è “una cosa a parte”, come lo stesso prefisso PARA- chiaramente indica.
Quel mio articolo si intitolava per l’appunto “Le Paralimpiadi dovrebbero essere integrate nelle Olimpiadi principali” (Paralympics Should be Integrated into Main Olympic Games) e intendeva spiegare il paradosso per il quale a fronte di un grande interesse del pubblico, le cosidette Paralimpiadi sono un evento distinto e, per l’appunto, a latere delle Olimpiadi maggiori: una sorta di appendice. Cosa che certo non invoglia gli sponsor e i massmedia.
Eppure lo sport delle persone con disabilità non è pura esibizione o una fisioterapia più elaborata, ma è vero sport, puro sport con la ricerca dell’eccellenza e della competizione e della vittoria.
Nel mio articolo avevo accennato tra l’altro al fatto che le Paralimpiadi e lo sport praticato dalle persone con disabilità in genere illustrano senza tanti discorsi un concetto importante: che si può parlare di salute anche per le persone con disabilità (e non solo per quelle che ottengono record), perché la salute non è un utopico stato di perfezione, ma è lo stato di soddisfazione che si trae dalle proprie attività; basta che questo non sia visto al ribasso, cioè come un accontentarsi e come un alibi per gli Stati per dare solo il minimo indispensabile alle politiche integrative e sociali. Un concetto, questo, che avevo già avuto occasione di illustrare ampiamente lo scorso anno nel libro L’Abc della Bioetica (Persona e società), oltreché in vari articoli su riviste internazionali.
L’articolo di «Sport, Ethics and Philosophy» si concludeva così: «Le Paralimpiadi ci aiutano a identificare e vincere tre errori morali: 1) la discriminazione, intesa come esclusione sociale; 2) il “superumanismo”, inteso come il concetto che solo le persone sopradotate (incluse quelle con disabilità) possono essere veri atleti; 3) la miopia morale secondo cui le persone con disabilità devono accontentarsi delle soddisfazioni che si possono procacciare da sé, esentando gli Stati dalla loro responsabilità sociali».
Questo messaggio positivo potrebbe trovare amplificazione se le Paralimpiadi si unissero per osmosi – e ovviamente con lo sforzo organizzativo necessario – alle Olimpiadi, dando il messaggio finale di unità degli sportivi, indipendentemente dall’essere o non essere normodotati e non più di una – per quanto nobile – collateralità.