Vorrei esprimere la mia profonda gratitudine a quanti mi sono stati vicini con il loro affetto e il loro sostegno per tutti questi anni. Voglio dire grazie a quanti hanno condiviso e continueranno – ne sono certo – a condividere la mia battaglia: per un mondo senza barriere e senza frontiere.
Un saluto particolare a tutte le persone che ho incrociato sulla mia strada che, senza conoscermi, mi hanno regalato il loro tempo e la loro amicizia.
Ho iniziato questa avventura [il giro del mondo a nuoto denominato “A nuoto nei mari del globo”, per dare visibilità al progetto “Un mondo senza barriere e senza frontiere”, N.d.R.] perché sono profondamente convinto dell’importanza della condivisione. Infatti, solo portando all’attenzione dell’opinione pubblica le difficoltà e i disagi che quotidianamente vivono le persone con disabilità, solo sensibilizzando le coscienze, sarà possibile costruire, insieme, un mondo a misura di tutti. Se condividiamo l’idea di una società che si faccia carico dell’altro e che invogli ognuno a mettere a disposizione le proprie competenze e le proprie capacità, allora presto si potranno sconfiggere e abbattere definitivamente le barriere della diffidenza e dell’emarginazione, così da poter raggiungere quegli obiettivi fondamentali per noi disabili – come l’esigibilità delle leggi che regolano la disabilità – impedendo che oltre un miliardo di persone rimangano indietro, da sole, ad affrontare l’esistenza.
Oggi i Governi – che in realtà fanno ancora poco in materia di disabilità – devono cominciare invece a occuparsene concretamente, devono affrontare con convinzione la realtà delle persone con disabilità, valutandone insieme la parte da risolvere come problema e quella da considerare come risorsa da utilizzare per la crescita e lo sviluppo dei Paesi del mondo.
I Governi devono cioè essere capaci di promuovere reali processi di integrazione, reali processi di cambiamento nell’organizzazione delle città, dei quartieri, dei trasporti, delle scuole, di tutte le strutture pubbliche. Devono farsi carico di promuovere una politica imprenditoriale capace di industrializzare gli enormi e straordinari passi avanti compiuti dalla ricerca scientifica e dallo sviluppo tecnologico e contemporaneamente consentire a tutti i disabili di poterne fruire.
È necessario inoltre che il sistema sanitario contempli investimenti maggiori per la realizzazione di centri di ascolto per le famiglie, che non devono mai più essere lasciate sole e bisogna facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro, valorizzare le capacità e le attitudini di ogni cittadino e, soprattutto, non permettere mai che qualcuno rimanga isolato e senza speranza.
Dal canto loro, le persone con disabilità devono collaborare, aiutando gli altri a vedere gli ostacoli che quotidianamente affrontiamo. Dobbiamo impegnarci e non stancarci di parlare, manifestare, aiutare a dare voce a chi voce non può avere.
La prossima tappa del mio giro del mondo a nuoto – prevista per il mese di luglio del 2016 – sarà la Cuba-Miami, e il traguardo sarà quello di portare un aiuto concreto per liberare le tecnologie dai cassetti dei principali centri di ricerca, rendendoli accessibili alle persone con disabilità, e per questo avrò bisogno di tanto sostegno e tanta solidarietà.
Ogni anno, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), sono oltre un milione (una ogni trenta secondi!) le amputazioni a un arto inferiore che vengono eseguite a causa del diabete. E sempre secondo l’OMS, il numero dei nuovi casi di cancro per anno salirà da 14 a 22 milioni nei prossimi due decenni, mentre continuerà a salire anche il numero delle vittime di incidenti e malattie sui luoghi di lavoro. In tal senso, gli ultimi dati dell’ILO, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, prodotti in occasione della Giornata Mondiale per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro del 28 aprile, parlano di 268 milioni di incidenti non mortali ogni anno e di 160 milioni di nuovi casi di malattie legate al lavoro.
Ancora l’OMS informa infine che le Malattie Rare sono circa 6.000, l’80% delle quali di origine genetica. Secondo stime recenti, nei venticinque Paesi dell’Unione Europea, circa 30 milioni di persone soffrono di una Malattia Rara, vale a dire la somma della popolazione di Olanda, Belgio e Lussemburgo! In Italia sono circa 2 milioni (il 70% bambini).
Questi numeri spaventosi ci inducono a riflettere sulla necessità di coinvolgere e responsabilizzare maggiormente i Governi di tutto il mondo sulle questioni riguardanti la lotta per l’accessibilità, la fruibilità del patrimonio tecnologico per l’autonomia delle persone con disabilità, attraverso la ricerca, lo sviluppo e l’industrializzazione delle protesi e degli “ausili intelligenti”.
La maggior parte delle persone con disabilità, quando si sveglia alla mattina, ha grandi difficoltà nel pianificare una giornata e spesso è costretta ad accontentarsi della semplice immaginazione.
I motivi di questa triste realtà li conosciamo molto bene: mancano i dispositivi protesici e gli ausili corrispondenti alle proprie esigenze; le abitazioni sono inospitali perché molto spesso sprovviste di ascensori per l’accesso e per l’uscita; manca il lavoro, e questo provoca sovente disistima nei confronti di se stessi. In più, se penso agli adolescenti, sappiamo bene che in alcune zone del nostro Paese le scuole sono architettonicamente inaccessibili o – realtà ancora più grave – prive d’insegnanti di sostegno, condizioni che compromettono quello sviluppo culturale e sociale pieno e armonico a cui invece tutti, sulla carta, avremmo diritto.
Tutto questo accade perché il progresso non è distribuito equamente, non è accessibile a tutti.
La mia storia è ormai nota. Sono disabile dall’età di 14 anni e nel corso della mia esistenza, fino ad oggi che di anni ne ho 51, ho naturalmente avuto, come tutti, alti e bassi. Ma il “problema in più”, com’è ovvio, è stato sempre rappresentato dalle condizioni di partenza.
Io credo che una società, per dirsi civile, debba porsi come obiettivo principale il benessere delle persone che ne fanno parte, valutandone i bisogni e accogliendone le esigenze fondamentali. Ma il processo che io intendo è essenzialmente culturale.
Infatti, non c’è politica che tenga, non c’è regola scritta che possa risultare efficace e risolutiva, se non si riesce, prima, ad arrivare alla coscienza, alla formazione psicologica e morale dei cittadini. Intendo dire, in sostanza, che tutti i discorsi sull’accoglienza, sull’integrazione, sulla comprensione risulteranno vani e vuoti, se non accompagnati da una reale modifica, profonda e radicale, del senso di cittadinanza e di appartenenza. Solo cioè partendo dall’acquisizione di questa consapevolezza, sarà facile elaborare politiche che davvero si facciano carico di quei “problemi in più”, di quelle differenze che spesso, anche se minime, avvelenano l’esistenza di un essere umano.
Realizzare uno scivolo nelle abitazioni e negli edifici pubblici diventerà a quel punto naturale, com’è oggi naturale costruire una scala per arrivare al piano superiore di un’abitazione; non ostruire il passaggio sui marciapiedi, non occupare un parcheggio riservato alle persone con disabilità si trasformerà da regola imposta per legge a comportamento spontaneo e scontato e così via, fino a concepire, finalmente, i progressi della ricerca scientifica come materia da condividere per migliorare la vita di tutti e non solo di pochi fortunati.
Sono ormai molti anni che, grazie a numerosi incontri, ho la possibilità di raccontare a tante persone le piccole e grandi contraddizioni che, dal mio punto di vista, caratterizzano il nostro Paese: da una parte, ad esempio, raccogliamo i frutti di una vivacissima attività scientifica e tecnologica, dall’altra viviamo ancora oggi, nel 2015, il paradosso di un Nomenclatore Tariffario degli Ausili inadeguato e obsoleto. Da una parte godiamo di una tra le legislazioni più favorevoli all’integrazione delle persone con disabilità, dall’altra scontiamo un ritardo culturale e una grave carenza della politica, che quando si tratta di tagliare fondi, non esita a rivolgere lo sguardo, come prima opzione, al nostro mondo. Insomma, un atteggiamento letteralmente “schizofrenico”, che meriterebbe sicuramente un approfondimento di analisi, ma che io mi limito invece, purtroppo, a sottolineare semplicemente come “vittima”.
Ma poi, per fortuna, c’è anche la società civile che il problema se lo pone, e che lavora anche per avviare processi reali e concreti di cambiamento.
Sono convinto che proprio partendo da incontri come questo [si veda in calce, N.d.R.] sia possibile intervenire nel profondo delle coscienze, socializzare le esperienze, analizzare le situazioni, parlare e confrontarsi: tutto questo, infatti, rappresenta l’unico esercizio possibile per inventarsi una società nuova, per trasformare il pianeta in un luogo per tutti, di tutti.