Il lavoro fa per me!: questo il titolo scelto dall’UICI (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti), per una “due giorni” sul lavoro organizzata recentemente a Napoli e cui hanno partecipato, tra gli altri, Franco Bettoni, presidente della FAND (Federazione tra le Associazioni Nazionali di Persone con Disabilità), e Vincenzo Falabella, presidente della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) [se ne legga ampiamente anche nel nostro giornale, N.d.R.]. Vorrei qui proporre una riflessione nata proprio da quanto discusso a Napoli.
Le profonde trasformazioni dei processi lavorativi derivanti dall’applicazione delle nuove tecnologie, se è vero che hanno reso obsolete professioni che in passato avevano garantito la piena occupazione delle persone con disabilità visiva – quale quella del centralinista – è altrettanto vero che hanno creato nuove e diverse “situazioni di lavoro”, idonee all’inserimento lavorativo dei disabili in generale, e di quelli visivi in particolare, che vanno al di là delle professioni “tipiche” del passato.
Preferisco parlare di “inserimento in situazioni di lavoro” e non di nuove professioni, perché è proprio qui che sta la profonda differenza nell’approccio tra il nuovo e il vecchio “mercato del lavoro”: tranne rarissime eccezioni, infatti, non si tratta più di individuare nuovi profili professionali verso i quali avviare numerosi disabili e di organizzarne gli specifici corsi di formazione, ma piuttosto della ricerca – da realizzarsi in collaborazione con le organizzazioni dei datori di lavoro e i sindacati – di quelle “situazioni” nelle quali il disabile visivo, motorio o con lieve ritardo, cui siano state fornite le dovute competenze e la formazione di base, e resa accessibile la postazione di lavoro, potrà esprimere al meglio le proprie capacità.
Va ricordato a tal proposito che le ICT [tecnologie dell’informazione e della comunicazione, N.d.R.], sempre più presenti nella gestione dei processi lavorativi, hanno modificato profondamente alcune professioni (si pensi ad esempio alla logistica e alla gestione dei magazzini in genere, rese possibili ad alcune tipologie di persone con disabilità), ampliando a dismisura la possibilità di “accesso” ai documenti ai disabili visivi (e non solo), e consentendo loro un’operatività “alla pari”, in diverse situazioni di lavoro. Queste potrebbero diventare altrettante nuove opportunità di impiego – in particolare per gli ipovedenti e per i disabili visivi con disabilità aggiuntive, per i quali oggi non abbiamo proposte concrete da fare, in materia di occupazione – al di là delle professioni “tipiche” dei ciechi.
È questa la nuova prospettiva dalla quale affrontare le difficoltà occupazionali dei giovani con disabilità: cercare cioè il “posto giusto” per “la persona giusta”, modalità questa che, se pur prevista dalla Legge 68/99, è stata, in questi anni, sottovalutata dai ciechi italiani e comunque non sempre presa a modello per l’inclusione di persone con disabilità nel mondo del lavoro che, ancora troppo spesso, interpreta l’assunzione di un disabile in termini assistenziali e non, come dovrebbe essere, secondo parametri di inclusione sociale.
Dietro le odierne difficoltà per l’occupazione dei giovani con disabilità vi è tuttavia anche l’inadeguatezza della scuola secondaria di secondo grado.
L’inclusione scolastica che, come noto, dopo la Sentenza della Corte Costituzionale 215/87, ha accolto tutte le persone con disabilità, non ha però mai elaborato un modello inclusivo idoneo a favorirne l’inserimento sociolavorativo. E questo nonostante l’articolo 8 della Legge 104/92 – che individua gli interventi necessari a realizzare l’inserimento e l’integrazione sociale delle persone con disabilità – preveda l’attuazione di «misure idonee a favorire la piena integrazione nel mondo del lavoro».
L’articolo 14 della stessa Legge individua poi modalità di integrazione come le attività di orientamento – con inizio almeno dalla prima classe delle medie inferiori e la flessibilità dell’organizzazione didattica – quali momenti particolarmente qualificanti per il processo di inclusione.
E ancora, all’articolo 17 sempre della Legge 104, relativo alla formazione professionale, si ribadisce il diritto delle persone con disabilità di avvalersi dei metodi e delle strutture di apprendimento ordinari.
Va qui ricordato che la formazione superiore delle persone con disabilità visiva negli anni precedenti la citata Sentenza 215/87 della Corte Costituzionale, si era concretizzata o con il loro inserimento in classi comuni senza particolare progettazione inclusiva (né con docenti di sostegno), o negli specifici corsi professionali per operatori telefonici e per massoterapisti. Per le persone con grave ritardo di apprendimento, invece, in corsi cosiddetti “pre-lavorativi”.
Nonostante l’autonomia didattica gliene abbia fornito i supporti normativi, la scuola secondaria superiore – che ha tra l’altro, fra i propri obiettivi primari, la formazione verso l’inclusione sociale dei giovani – non ha saputo dunque sviluppare una progettazioone didattica riferita a una propria “cultura dell’inclusione” delle persone con disabilità, capace di guardare al di là degli angusti confini dell’aula, ma si è limitata ad assimilare modalità, atteggiamenti e comportamenti educativi “caratteristici”, per così dire, della scuola dell’obbligo.
In altre parole, quasi mai si è cercato di organizzare il lavoro didattico in modo da creare un legame coerente e strutturato tra il curriculum del corso di studi cui l’alunno con disabilità era iscritto e le ipotesi formative individualizzate che erano state previste per lui. Soprattutto, gli obiettivi individuali, troppo spesso, non fanno riferimento a un concreto “progetto di vita” che ponga la finalità dell’intervento educativo oltre i confini angusti della frequenza scolastica. Il percorso formativo si svolge nell’hortus conclusus della scuola frequentata, al di fuori di legami con il territorio, le risorse culturali e il sistema socio economico e produttivo di esso.
Questo “aureo isolamento” del sistema scolastico limita pertanto le necessarie esperienze che un alunno – disabile o no – dovrebbe fare, per orientarsi nella scelta professionale e per prepararsi al suo futuro inserimento sociale e lavorativo. E si tratta di una carenza particolarmente sentita dagli istituti tecnici e professionali che alcuni progetti di riforma, viceversa, avevano voluto “liceizzare”.
A questo limite pone rimedio l’alternanza scuola-lavoro, consistente nella realizzazione di percorsi progettati, attuati, verificati e valutati, sotto la responsabilità dell’istituzione scolastica o formativa, sulla base di apposite convenzioni con le imprese, o con le rispettive associazioni di rappresentanza, o ancora con le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, o con gli enti pubblici e privati, ivi inclusi quelli del Terzo Settore, disponibili ad accogliere gli studenti per periodi di apprendimento in situazione lavorativa, che non costituiscano rapporto individuale di lavoro (articolo 4 del Decreto Legislativo 77/05).
Si tratta quindi di un percorso formativo che rientra a pieno titolo nell’attività didattica di un corso di studi, progettato dalla scuola con il partner (museo, biblioteca, redazione giornalistica, azienda commerciale, agenzia turistica ecc.), che accoglierà l’alunno in stage. Per tutti gli studenti, l’alternanza scuola-lavoro contribuisce a qualificare l’offerta formativa, definendone meglio gli obiettivi, esaltando la flessibilità del curriculum e rispondendo ai bisogni diversi degli alunni; essa ha inoltre una forte valenza orientativa e rimotivante e, come tale, agisce anche come mezzo di contrasto alla dispersione scolastica.
Per i ragazzi con disabilità, in particolare, tale sistema sarebbe molto importante per l’acquisizione di una migliore autonomia di movimento e personale, arricchirebbe il loro bagaglio di esperienze, permettendo loro di “mettersi in gioco” in un ambiente diverso e meno protetto della scuola, di assimilare le competenze relative al ruolo del lavoratore e di “verificarsi e scoprirsi capaci” di svolgere – se messi in condizione di operare in pari opportunità – le mansioni dei colleghi. Inoltre, questo inserimento in situazione di lavoro contribuirebbe a sviluppare la cultura dell’accessibilità degli ambienti e di quella digitale e a incrementare la conoscenza e la fiducia del mondo produttivo sulle potenzialità operative delle persone con disabilità.
Forse qualcuno ha sentito parlare per la prima volta di alternanza scuola-lavoro come una delle innovazioni contenute nel recente Disegno di Legge governativo sulla Buona Scuola, attualmente in discussione in Parlamento. Essa, invece, era già stata normata dieci anni fa dal citato Decreto Legislativo n. 77 del 2005 ed è già presente – in via sperimentale – in diverse realtà scolastiche: dal 2014, e fino al 2016, è attivo ad esempio un programma sperimentale per lo svolgimento di periodi di formazione in azienda per gli studenti degli ultimi due anni delle scuole secondarie di secondo grado e sarebbe a questo punto interessante sapere se e quanti siano gli studenti con disabilità presenti in questi percorsi formativi sperimentali, rivolgendosi alla Direzione Generale per l’Istruzione e la Formazione Tecnica Superiore e per i Rapporti con i Sistemi Formativi delle Regioni, presso il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca.
Da parte nostra, riteniamo che l’alternanza scuola-lavoro rappresenti un’ottima opportunità di inclusione per i ragazzi con disabilità, ciechi, ipovedenti o con disabilità aggiuntive, per sperimentare il “mondo dell’impresa” e misurarsi con le situazioni di lavoro possibili, verificandosi “capaci”, oltreché per scoprire nuove e gratificanti possibilità per un loro futuro occupazionale. Essa potrebbe inoltre far ridurre quel gap emergente dai dati del 2013, tra i 40.000 posti di lavoro disponibili e i 18.000 collocamenti di persone con disabilità avvenuti nello stesso anno, con la speranza che ciascuno di loro un giorno possa dire: «Ho trovato il lavoro che fa per me!».