L’“assistente sessuale” per le persone con disabilità introdotto grazie a una petizione? Anche no, grazie. Chi scrive si è espresso più volte (talvolta anche a favore) su questa figura controversa, una persona appositamente formata, che guidi le persone con disabilità grave e gravissima verso la scoperta della propria sessualità. Basti pensare a uomini e donne, consumati in brevissimo tempo dalle loro condizioni e malattie, che non hanno mai provato il contatto fisico con un’altra persona, per rendersi conto che la questione della sessualità esiste.
Ma è altresì vero che spesso questa esigenza di un’emozione fisica e sensoriale cela la necessità, ben più profonda e “primaria”, di essere amati. Un’urgenza ben più viva nelle persone con disabilità che vivono le loro condizioni non solo nel fisico.
La disabilità è qualcosa che penetra nell’anima e la sconvolge, tanto più in una società dove il diverso diventa l’estraneo. Ma per un momento lasciamo da parte il “buonismo” (e a tal proposito si legga la bella riflessione di Luca Mattiucci, intitolata Donna offresi per uomo in sedia a ruote, buona notizia? Direi di no, in «Corriere del Mezzogiorno.it»).
Credo che una petizione che in un mese e mezzo ha raccolto più di 14.000 firme, per accelerare l’iter del Disegno di Legge alquanto scarno (il Disegno di Legge n. 1442, Disposizioni in materia di sessualità assistita per persone con disabilità, del 24 aprile 2014, che giace negletto – e per fortuna – in Senato), che porti all’introduzione dell’assistente sessuale in Italia, non sia la risposta corretta. E credo anche che una rapida lettura di quello stesso Disegno di Legge, fatto di un solo articolo, possa spiegare le motivazioni di questa mia riflessione.
Se si pensa cioè di «istituire per legge questa libera professione» (la citazione precisa della proposta è «una prestazione che deve rimanere caratterizzata da autonomia piena della persona che la esercita. Essa può costituire oggetto di lavoro autonomo cooperativo»), senza definirne i contorni, rimandando tale compito alle Regioni e alle Province Autonome, il compito, il rifiuto non può che essere secco.
Una materia così delicata meriterebbe molta più attenzione. La sessualità, infatti, è argomento complicatissimo, come ci ha spiegato in primis Freud. E il rischio che si banalizzi il significato è altissimo.
Ironizzo per alleggerire, ma si può immaginare una commissione medica, simile a quella che definisce la percentuale di invalidità, che decide chi ha diritto a vivere la propria sessualità assistita? O peggio che l’accesso venga definito indiscriminatamente per tipo di disabilità? Cogliete l’ironia, vi prego, anche se l’argomento è serio.
Si può immaginare un “nomenclatore tariffario” come quello che viene usato dalle ASL per la fornitura di ausili, un elenco del tipo: «Un paraplegico con lesione superiore alla vertebra D4 due performance al mese; Tetraplegico con lesione superiore alla vertebra C5 tre performance al mese; se con respiratore ridotte a una…».
E una persona con autismo o con sindrome di Down? Niente. Il Disegno di Legge, infatti, parla di «tutelare il diritto alla sessualità e al benessere psico-fisico delle persone disabili a ridotta autosufficienza a livello di mobilità e motilità». Nulla si dice sulle persone con disabilità psichica e relazionale.
C’è poi un altro rischio: che questa Legge diventi un “cavallo di Troia” che porti alla “legalizzazione della prostituzione”, altro argomento che può essere dibattuto, ma non fatto passare attraverso le pieghe della burocrazia.
In altre parole, ipotizziamo che diventi legale una prestazione sessuale a pagamento (il Disegno di Legge non parla di pagamento, forse lo sottointende, ma non ne fa nemmeno divieto) per le persone con il 100% di invalidità. Dopo poco, non è difficile immaginare che qualcuno possa sollevare problemi di incostituzionalità: se il sesso è un diritto, lo deve essere per tutti.
Il problema della sessualità per le persone con gravi disabilità però esiste e hanno fatto bene i supporter del Comitato Love Giver (Max Ulivieri in testa) a porlo. Il dibattito, se c’è stato, è rimasto sopito nel silenzioso mondo della disabilità. Si è acceso in alcuni momenti, per poi nascondersi all’interno dei convegni dedicati a patologie e malattie.
Ancora troppi tabù? Argomento troppo spinoso per prendere un posizione? Oppure la necessità di concentrarsi sui bisogni primari, fa porre a molti l’attenzione su altre questioni?
Forse la discussione deve ripartire da una complicata – tanto quanto la sessualità umana – domanda: il sesso è un diritto universale o lo diventa attraverso la codificazione in norme che regolano la comunità? I due concetti si rincorrono e s’intrecciano perché l’uno definisce e dà vita all’altro.
Personalmente ho dei dubbi, non credo che il sesso sia un diritto che possa essere preteso al pari, per esempio, di quello alla salute. È una scelta. È qualcosa che trascende le norme, al pari dell’amore.
La presente riflessione è già apparsa in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “Assistente sessuale si o no? Al via la petizione online” e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
Del tema dell’“assistenza sessuale” la nostra testata si è ampiamente occupata in questi anni. Per la consultazione di un’ampia bibliografia, che comprende anche varie altre voci, oltre a quelle di «Superando.it», suggeriamo la consultazione di Andrea Pancaldi, La disabilità, il dibattito sull’assistente sessuale e oltre.
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