Tempo fa ero a parlare del fascino della diversità. Un incontro in Biblioteca Chiesa Rossa, in un ameno parchetto alla periferia sud-ovest di Milano. Sono lì a tracciare una panoramica di personaggi, fatti e considerazioni, strizzando l’occhio all’attrazione che le persone con disabilità possono esercitare, come tutti, se esiste la giusta cultura e se, onore a loro, sono fonti di fascino.
Concluso l’articolato tediare, un’attenta ascoltatrice mi chiede: «Ma lei come ha fatto ad affrontare la sua malattia?». Domanda lecita, ma mal posta. E qui scatta l’ennesimo tentativo di fare chiarezza sulla comunicazione in materia di disabilità.
Accogliendo la domanda annuisco e sorridendo annuncio che sto per riprendere l’intervenuta. Lei mi guarda assenziente e io le spiego che non ho nessuna malattia, ovvero che non sempre la disabilità deriva da una malattia, bensì lega la condizione di salute all’ambiente circostante. Per esempio, la disabilità può derivare da un problema traumatologico o relazionale che non ha un fondamento patologico. Ergo, malattia e disabilità sono due cose che a volte si intrecciano ma che restano distinte. E questo chiude le porte all’uso dell’espressione “affetto da disabilità”.
Portatore di disabilità, di handicap o di qualsiasi altro fardello è sbagliato perché nessuno è “sherpa della propria disabilità”. Ha un deficit, tutt’al più, ma non c’è bisogno che gli si ricordi che se lo sta portando appresso. Parola di “portatore di logorrea giornalistica”.
Nel grande prato verde della creatività sorgon poi di quando in quando neologismi ben piantati a terra, ma con quelle tinte sgargianti da darwiniano meccanismo, per attirare impavidi curiosi che si lasciano ipnotizzare dalle suggestioni, per giungere infine preda di concetti che intrappolano nella retorica. E affondano anni di lotte per l’autodeterminazione.
In principio fu diversamente abile, che in Italia è stato rilanciato una decina d’anni fa dall’ottimo Claudio Imprudente a partire dall’inglese differently abled, e che si è ritagliato finanche un posto nella prestigiosa Treccani e nell’eloquio di politici, rappresentanti di associazioni e affermate firme del giornalismo cartaceo, catodico, in modulazione di frequenza, digitale e in ogni immaginabile forma.
Tutto era nato sotto la buona stella del cercare alternative al termine handicapped, per altro nella patria delle lotte delle persone disabili, gli Stati Uniti. Erano i primi Anni Ottanta e persino il «Los Angeles Times» lo supportava. Poi è divenuto obsoleto poiché considerato eufemistico, ossia, in nome del “politicamente corretto”, tendente ad omettere la condizione reale della persona per esaltarne le abilità. Fra l’altro neppure annunciando l’idea di persona, che nella dizione non rientra.
Ciò che mi irrita è che la gente non veda come quel “diversamente abile” metta in vetrina il concetto di diverso, cioè getti al vento anni di battaglie per cancellare lo stigma della diversità, che storicamente bolla le persone disabili. Sulla stessa barca ci affonda tutti.
Non contenti del “politicamente corretto”, nel giardino della creatività lessicale fioriscono neologismi legati alla tecnologia o alla dialettica tout-court. Curioso il termine interabile, che viene promosso da Luis Fusaro il quale, sull’omonimo sito, propone una sorta di “sostegno motivazionale” per le persone con disabilità. Pardon, m’è scappato, interabili andava detto. Brava persona Luis, che da quando aveva quattro anni vive con un proiettile in testa, ma le motivazioni che adduce per l’uso del suo termine non sono altro che quelle che portano ad usare ciò che indica la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, cioè proprio persone con disabilità. Quindi perché consumare le meningi per coniare concetti già definiti?
Molto interessante, poi, anche un articolo di Franco Cascio che intervista Filippo Roberto Santamaria, fondatore della ONLUS Who is Handy?. Il pezzo illustra una bella porzione di storia della terminologia a tema nel nostro Paese, ma apre al neologismo diversabile. E ci risiamo: diversi a prescindere, forse migliori, ma sempre col marchio in bella vista. Come la banana con quello blu. O gli ebrei con la stella di David cucita in mostra…
A questo punto, per ulteriori approfondimenti sul linguaggio, ricordo il sito del National Center on Disability and Journalism, che fornisce accurate indicazioni per il miglior linguaggio possibile sulla disabilità. Disabilità che non ha nulla di pittoresco, di straordinario, da voler cercare nuovi termini a tutti i costi. Accettiamo di essere tutti diversi, che è ricchezza per l’umanità. E descriviamoci con un linguaggio corretto, classificato e degno. Già codificato, pure, così non dobbiamo neanche far la fatica di costruirlo. Di studiarlo sì, ma vogliamo essere così pigri da farci passare per ignoranti? No, che poi la società ci crede davvero.