Esiste un legame, e in tal caso quale, tra l’approccio medico-farmacologico e quello psico-educativo all’autismo? Per rispondere a questa domanda occorre innanzitutto ricordare che non si dispone, allo stato attuale, di una strategia in grado di “guarire” l’autismo. Quelli messi in campo, infatti, sono in prevalenza sistemi – conosciuti e validati dalla scienza internazionale – di tipo cognitivo-comportamentale, psico-educativo e di supporto alla comunicazione, finalizzati a migliorare le autonomie, i deficit sociali e le competenze individuali delle persone autistiche.
E tuttavia, per quanto possa apparire “strano”, o se si preferisce “non in linea” con l’orientamento appena citato (ma chi lo pensa dimentica che in vasti settori della psichiatria italiana permane l’antico pregiudizio che identifica i disturbi dello spettro autistico [d’ora in poi sempre DSA, N.d.R.] con una malattia mentale…), ultimamente – in rapporto all’autismo – si è assistito a un consistente aumento degli interventi farmacologici.
Ciò ha destato, ed era inevitabile, viva preoccupazione e diffuso allarme tra le famiglie, sentimenti tanto più comprensibili, dal momento che nessun farmaco si è finora dimostrato efficace nel “curare” l’autismo e/o nel modificare radicalmente i sintomi “nucleari” che ne sono alla base: i disturbi dell’interazione reciproca e la ristrettezza degli interessi.
Per altro questa considerazione è stata, ed è, il primo e insuperabile limite all’utilizzazione di psicofarmaci nei DSA: si tratta di un concetto affermato nel 2011 dalla Linea Guida n. 21 dell’Istituto Superiore di Sanità e confermato nell’agosto del 2013 dalla Linea Guida NICE del Regno Unito [NICE sta per National Institute for Health and Care Excellence, N.d.R.].
L’uso dei neurolettici* nei DSA avverrebbe (avviene) allo scopo (per ora – come detto – rivelatosi molto velleitario) di dominare i comportamenti gravemente problematici della persona autistica, in particolare quelli legati all’“irritabilità” e “iperattività”. Se cioè tali comportamenti impediscono di iniziare il percorso psico-educativo, sarebbe “utile”, secondo una certa corrente di pensiero, ricorrere per l’appunto alla somministrazione di un neurolettico… Peccato, però, che la stragrande maggioranza degli esperti confuti per intero tale linea, sottolineando che il “vizio” di cui si discute è (semmai) da ricercare a monte e si deve al fatto che la persona autistica, se non correttamente abilitata, è “naturalmente” predisposta a crisi di rabbia improvvisa e violenta, auto-etero diretta o distruttiva.
Accade che all’emergere di tali crisi – che colpevolmente spesso si valutano come immotivate – si ricorra, nella maggior parte dei casi, allo psichiatra. Questi, se culturalmente all’oscuro di autismo, verificata l’incapacità di comunicare con quella data persona, che non capisce e che non si fa capire, inizierà “inevitabilmente” a somministrare psicofarmaci con capacità contenitiva crescente, fino ad approdare ai neurolettici in dose sempre più intensa, arrivando in tal modo a realizzare una vera e propria “camicia di forza chimica”, con la conseguenza di annullare completamente ogni capacità psicofisica, anche potenziale, e di alterare il metabolismo dei soggetti coinvolti.
In questi casi non è malizioso pensare che la prima preoccupazione sia quella di garantire, più che la “tranquillità” degli autistici, quella delle persone che se ne “occupano”…
In compenso poco si indaga su alcune possibili cause che potrebbero essere alla base dei cosiddetti “comportamenti-problema”. Troppe volte, infatti, magari perché la persona autistica non riesce ad esprimersi in modo appropriato, questi comportamenti disadattivi vengono sbrigativamente e banalmente etichettati come “tipiche manifestazioni dell’autismo”, senza preoccuparsi di controllare se possano essere generati da sottostanti problematiche di salute o sensoriali.
Poco si fa, in altre parole, per cercare di capire ciò di cui soffre il soggetto autistico. Eppure potrebbe succedere che persone costrette per una settimana, o mesi, a un letto d’ospedale, soffrano in realtà – per esempio – di un calcolo renale, o di una grave colite ecc.: basterebbe quindi una seria indagine preliminare per accertarlo, affidandosi a un immunologo o a un gastroenterologo. E invece no!
Esistono studi mondiali (ma non italiani) afferenti a carenze di vitamina D, sistema immunitario, gastroenterico, metabolico, che sottolineano alterazioni in sottogruppi di soggetti autistici, ma gli psichiatri (e i neuropsichiatri infantili, prima ancora) si limitano – imperterriti – a somministrare farmaci che, oltretutto, hanno pesanti ricadute e controindicazioni.
La conseguenza principale, e più devastante, dell’uso di psicofarmaci – e qui entriamo nella parte che attiene al possibile legame che essi hanno con l’approccio (ri)abilitativo all’autismo – è l’abbassamento significativo di tutte le facoltà cognitive, per cui, se somministrati in dosi massicce, sarà sempre più difficile utilizzare tecniche abilitative, né si riusciranno ad evitare del tutto gli scoppi di rabbia (il vero pretesto della “cura”?), pur in qualche modo, come dire, “opacati” dal farmaco.
Si ignora che la letteratura scientifica richiama l’esigenza di porre particolare attenzione a questi farmaci, soprattutto se di uso psichiatrico, segnalando la necessità di un impiego non alternativo, ma, al massimo, complementare agli interventi di “prima scelta”. Non tener conto di ciò significa – quindici anni dopo il Duemila – che persone gradevoli all’aspetto potranno essere trasformate in creature dagli occhi appannati, grasse, oltremodo indebolite, che continueranno a soffrire di crisi di rabbia (che in un corto circuito perverso e all’apparenza inarrestabile, richiameranno altri farmaci), pur se smorzate per il rallentamento e l’impotenza fisica indotti dagli psicofarmaci. È sufficiente fare un giro presso molte strutture che “curano” (così dicono…) l’autismo, per rendersi conto della fondatezza di questa affermazione!
Come ha rilevato Tiziano Gabrielli (nel libro OUT AUT. Manuale di pratica abilitativa dell’autismo. Disturbi evolutivi globali dello sviluppo psicologico, Vannini Scientifica, 2011), «negli istituti per disabili intellettivo-comportamentali (RSD), la quantità di farmaci neurolettici, maggiori e minori (e altri ancora, usati in modo discrezionale, fuori prescrizione), somministrati individualmente e complessivamente, aumenta proporzionalmente in base al numero degli ospiti presenti in struttura, all’aumentare della loro età e alla durata della permanenza del singolo in struttura; omologandosi quantitativamente e qualitativamente nelle diverse strutture (ISTAT 2006). Il dosaggio si assesta a livelli medio-alti del range di prescrizione. I costi farmacologici tra RSA-RSD [le RSA sono le Residenze Sanitarie Assistenziali, N.d.R.] sono praticamente omogenei, a parità di numero di ospiti certificati». «Questi dati – aggiunge Gabrielli – sono scandalosi. Significano che, indipendentemente dal livello intellettivo (competenze) presente all’accesso del disabile in struttura, tutti i degenti, entro un certo tempo (sospettiamo assai breve, ma non è indicato) diventano ugualmente “gravi”, subendo identico trattamento. Potremmo sintetizzare dicendo che la “residenzialità” oggi, produce “gravità”».
Cosa fare, dunque, per arginare questa deriva? Credo che accanto alla richiesta irrinunciabile, rivolta alle Istituzioni preposte, di garantire un concreto (e non solo annunciato) monitoraggio delle strutture presenti sul territorio, sia prioritariamente necessario lavorare alla realizzazione dei seguenti obiettivi:
1) “formare” una nuova classe di neuropsichiatri e psichiatri, il cui approccio all’autismo sia ben diverso rispetto a quello della generazione precedente, sostanzialmente cresciuta ed “educata” a rimorchio di vecchie e mai rinnegate pratiche manicomiali;
2) realizzare ambulatori territoriali che si occupino in modo specifico dei disturbi dello spettro autistico, in particolare in età adulta, ponendosi come centri di consulenza specialistica per la valutazione, la diagnosi e l’orientamento di interventi nei confronti dei soggetti affetti da questi disturbi, allo scopo di diventare un punto di riferimento per utenti, famiglie e servizi sociali della città.
In particolare, in merito al secondo punto, la realtà propone – non di rado – esempi sconcertanti, che mostrano quanto profondo sia il divario tra ciò che “effettivamente” esiste sul territorio, in termini di fruizione di opportunità e servizi, e le parole, le troppe parole, che le Istituzioni pronunciano senza che ad esse seguano i fatti.
Porto in questa sede l’esempio dell’ambulatorio di Torino (città in cui vivo), che dovrebbe occuparsi dell’intervento medico e psicologico in favore delle persone autistiche adulte.
Questo ambulatorio è stato inaugurato nel 2009. Inizialmente il dottor Roberto Keller, psichiatra che lo gestisce con competenza e professionalità, avrebbe dovuto occuparsi dei pazienti autistici adulti facenti capo alla sola ASL 2 della città. A tal fine gli furono assegnate dieci ore. A giugno del 2013 si decise di allargare l’esperienza anche all’ASL1. Le ore a disposizione del dottor Keller rimasero dieci, ma gli fu affiancata una psicologa per cinque ore. Nel mese di marzo del 2014, poi, dopo l’approvazione di una specifica Delibera di Giunta Regionale sull’autismo, si decise che l’ambulatorio – visti i buoni risultati conseguiti – avrebbe dovuto estendere il suo intervento su base regionale (in aggiunta alle ASL 1 e 2 di Torino). Le ore assegnate, però – può sembrare incredibile ma è così – rimasero dieci per la componente medica e cinque per quella psicologica!
Nonostante le naturali perplessità e le rimostranze (espresse in tutte le sedi), questo quadro è, ad oggi, settembre 2015, rimasto sostanzialmente immutato, salvo un lieve aumento delle ore a disposizione del dottor Keller, divenute circa quindici a settimana. La prima conseguenza è il formarsi di lunghissime, intollerabili (per lo meno per chi sa un minimo di autismo) liste di attesa: esse, per una prima visita, hanno tempi di circa un anno e sono cento le famiglie che in questo momento attendono di avere un riscontro! Faccio notare, per finire, che stime del 2011 parlano (prudentemente) di 16.000 autistici che vivono in Piemonte!
A questo punto appare evidente come tale situazione ponga gravissimi problemi a persone le cui condizioni medico-sanitarie (nonché psicologiche) non possono tollerare ritardi di questa entità. Se si vuole creare un centro regionale all’altezza della sfida, bisogna dotarlo di risorse minime adeguate e farlo concretamente, anziché a parole!
Sarebbe interessante (doveroso?) se sulla vicenda appena citata si esprimessero pubblicamente i direttori generali delle ASL coinvolte e i vertici istituzionali della politica (a cominciare da Sergio Chiamparino, governatore della Regione Piemonte, ma anche rappresentante di tutti i Presidenti di Regione, e Piero Fassino, sindaco di Torino, ma anche presidente dell’ANCI, l’Associazione Nazionale Comuni Italiani). E altrettanto interessante sarebbe se, approfittando dell’occasione, ASL e mondo della politica spiegassero in quale misura ritengono oggi tollerabile continuare a pagare rette mensili di circa 5.000 euro, per ospite, alle strutture convenzionate, senza porsi il problema di verificare i benefìci dell’intervento somministrato. In altre parole: si chiede conto, alle strutture, del loro operato? Si chiede conto dei risultati raggiunti o del perché non ci siano stati?
Pongo queste domande perché sono convinto che sia necessario fare piena luce sull’attività svolta dai centri che formalmente dicono di occuparsi di autismo e che per questo, come detto, ricevono cospicui finanziamenti pubblici. Ciò in quanto possa attuarsi una vera, efficace, razionalizzazione della spesa, che tenga conto delle reali esigenze terapeutiche e abilitative, del progetto individualizzato e della presa in carico multidisciplinare.
Non si tratta di una questione meramente economica: sono infatti evidenti i nessi e le implicazioni che attengono direttamente alla dignità di persone che devono essere messe nelle condizioni di sfruttare appieno le possibilità che la vita ha loro concesso, pur se disabili.
Cosa intendono le Istituzioni quando parlano di “rispetto” delle persone autistiche? Che siano solo assistite? Hanno mai pensato, nella stesura dei protocolli d’intesa con i partner privati, di avvalersi della consulenza di un “vero” tecnico della psico-educazione e di un “vero” esperto dell’autismo in psichiatria e farmacologia? Come pensano sia possibile, altrimenti, definire standard di qualità?
In conclusione, mi sembra che sia giunto il tempo di dire basta a soluzioni pasticciate, all’improvvisazione gestionale e terapeutica, a una presa in carico solo formale. A una “cura”, quella medica, che – se prevalente e a tratti esclusiva – non è – nell’autismo – né possibile né efficace, dal momento che (semmai) è di “prendersi cura” che i nostri figli avvertono, primariamente, il bisogno! Non averlo capito fin qui è solo – voglio ribadirlo con estrema chiarezza, da “semplice” genitore quale sono – segno di superficialità, arretratezza e ignoranza.
Ecco perché ritengo necessario combattere fino in fondo questa difficile battaglia, che è innanzitutto di emancipazione culturale, certo sapendo che essa è estremamente complessa e che non mancheranno resistenze e ostacoli da parte di chi, pare incredibile sottolinearlo, non ha ancora compreso fino in fondo che in gioco ci sono i destini di Persone, i cui bisogni e diritti ogni giorno sono pesantemente e impunemente violati.
Combattere questa battaglia è un nostro preciso dovere. “Facciamolo”, denunciando in ogni sede – se serve – le ambiguità, i compromessi di piccolo cabotaggio, la disinformazione, il confronto blindato a cui vogliono costringerci quanti, invariabilmente, leggono ogni richiesta di trasparenza e cambiamento, che sale dalle famiglie, come una sorta di trama oscura che attenterebbe al primato di saccenti pifferai e di élite autoreferenziali, sempre più lontane dalla realtà che viviamo ogni giorno. “Facciamolo”, sapendo che il futuro dei nostri figli è adesso! “Facciamolo” con la Passione, con l’Orgoglio, con la Consapevolezza, di chi sa di essere dalla parte giusta!
*I neurolettici sono una famiglia di psicofarmaci che agiscono su precisi sistemi di neurotrasmettitori, utilizzati tipicamente per il trattamento psichiatrico delle psicosi, come ad esempio la schizofrenia e il disturbo bipolare, e anche in alcune forme depressive.