In coda alla cassa del supermercato. Le riflessioni sulla disabilità nascono anche lì, con il carrello della spesa ad aspettare il proprio turno, gettando lo sguardo sui contenitori di chewing-gum e dolciumi assortiti, posti in prossimità dell’uscita per invogliarci all’ultimo acquisto.
Ferma accanto alla cassa contrassegnata con il simbolo della sedia a rotelle – quella con la corsia più ampia – riesco a passare con la sedia a rotelle senza sbucciarmi i gomiti contro il nastro trasportatore che legge i codici a barre dei prodotti. Lo spazio è l’unica ragione per cui, appena possibile, scelgo la cassa “dedicata” ai clienti con disabilità, non desidero infatti saltare la coda dei deambulanti. Il logo della carrozzina implica una corsia preferenziale, quindi se volessi passare davanti agli altri potrei esigerlo e mi dovrebbe essere concesso in virtù del mezzo di trasporto che “cavalco” da una vita. Sta di fatto che a me non interessa. Dirò di più, in una situazione di questo genere mi sentirei parecchio a disagio a dover chiedere alle persone in fila di farsi da parte. Vado a fare la spesa come un qualunque cittadino, mi soffermo a guardare la merce sugli scaffali (quella in basso, da seduta, perché per vedere i prodotti in alto rischio la slogatura della cervicale) e puntualmente compro più di quello che ho appuntato sulla lista. Di solito mi prendo il tempo che occorre, a volte capita che abbia fretta. Insomma, niente di diverso dalla norma, niente che giustifichi la pretesa di fare spostare i clienti al mio arrivo, manco fossi “Mosè che divide le acque”. Alcuni, gentili, chiedono se devono farsi da parte. Magari stanno già trasferendo la spesa sul nastro trasportatore, ma cominciano a rimetterla nel carrello per lasciarmi il posto. Al mio cortese «no, grazie, lei viene prima di me, posso aspettare», accettano ben felici la risposta. Altri, non appena vedono la mia sedia a rotelle, presumendo voglia scavalcarli, mi guardano di sottecchi, in cuor loro pensano «ecco l’handicappata che vuole prendere il mio posto e mi tocca darglielo per non fare la figura del razzista». Si tranquillizzano soltanto al momento di pagare, ormai certi che non posso più interferire con i loro acquisti, alla fine mi salutano pure. Ci sono anche i miei preferiti, quelli che non fanno una piega. La cassa è contrassegnata dal disegno stilizzato della sedia a rotelle, ma vedono che non ho necessità impellenti e mi trattano da cliente normale quale sono, esattamente come loro.
Negli ultimi tempi ho individuato una nuova “categoria” di cui, in anni di shopping, ignoravo l’esistenza: il cliente che vuole a tutti i costi lasciarti il posto. Mi trovavo, per l’appunto, alla cassa, in attenta contemplazione di quei dolcetti che sarebbero destinati ai bambini e meditavo di provare a sentirmi più giovane acquistandone una confezione. Un attimo prima di me, era arrivato un papà con il figlioletto di pochi anni seduto nel carrello. Carrello da fantascienza, per l’esattezza, carico all’inverosimile, strabordante di ogni ben di Dio, da far presumere che a casa ci fosse una famiglia numerosa. Aveva fretta, il giovane padre, indaffarato a porgere la merce alla cassiera. Senonché, a un certo punto, ha girato gli occhi e mi ha vista. In perfetta sincronia, nello stesso istante, anche la cassiera ha notato la mia presenza. All’unisono mi hanno proposto di passare e, per le ragioni di cui sopra, la mia risposta è stata quella standard: «No, grazie, lei viene prima di me, posso aspettare». Entrambi hanno continuato ciò che avevano per un attimo interrotto, parevano rassegnati. Parevano, ma non erano convinti. Per tutto il tempo, fin quasi all’emissione dello scontrino, a turno, mi hanno domandato se volevo saltare la fila. Una solerzia premurosa imbarazzante, mi sentivo quasi in colpa a rifiutare, ma non avendo un motivo valido per accettare, sono rimasta al mio posto e ho sopportato l’atmosfera impacciata che si era venuta a creare.
Avessi difficoltà a camminare e a stare in piedi a lungo, se la fila alla cassa fosse stata chilometrica e mi avesse obbligata ad un’estenuante attesa di ore (fatto improbabile, era un supermarket, non l’ingresso a uno dei padiglioni dell’Expo), oppure se all’improvviso mi fossi sentita poco bene, sarebbe stato un discorso diverso.
In quel preciso frangente il papà era più “disabile” di me, nel senso che si trovava in una situazione di difficoltà, dovendo gestire le borse della spesa e l’irrequietezza del bambino, mentre io ero tranquilla e mi trovavo in coda a quella cassa soltanto per usufruire dell’ampia corsia annessa. Era mio dovere di cittadina educata e solidale rispondere con un cortese diniego per essergli d’aiuto.
Padre e figlio, infine, hanno concluso e preso l’uscita. Sarebbe stato il mio turno, solo che gli avvenimenti degli ultimi minuti mi avevano indotta ad impartire ai presenti una bonaria “lezione” di galateo verso le persone con disabilità, perché si sa che spesso sono l’esempio e l’esperienza ad insegnare più delle parole. Dietro di me, infatti, aspettava una ragazza. Niente carrello per lei né cestino, aveva in mano una confezione di uova e un sacchetto di insalata già pulita che tradivano l’attenzione alla linea e, presumo, scarsa dimestichezza con i fornelli. Le ho lasciato il posto, per sei uova e un po’ d’insalata non mi pareva giusto aspettasse il passaggio della mia più consistente spesa. Lì per lì non sapeva che fare. Memore di quanto appena accaduto con il giovane papà, ha rifiutato, però si capiva che il mio invito le faceva gola, infatti non sono state necessarie insistenze per convincerla ad accettare, mi ha ringraziata e se ne è andata soddisfatta.
Quando poi è toccato a me, le sorprese non sono mancate. La cassiera si è detta dispiaciuta per avermi domandato più volte se volevo la precedenza, l’aveva fatto perché in passato alcuni clienti in sedia a rotelle avevano inscenato un vero e proprio putiferio, quando nessuno si era sentito in dovere di lasciar loro il posto. «Con alcune persone scoppia la prima guerra mondiale, la seconda, ritornano le guerre puniche e tutte le altre guerre che adesso non ricordo», sono state le sue testuali parole. Una lezione l’ho dunque avuta anch’io e confesso che mi sono un po’ vergognata per la “categoria” cui appartengo.
Da decenni andiamo discorrendo che il cittadino con disabilità non deve essere compatito e non deve essere trattato come un paziente da curare anche quando sta fuori da una corsia d’ospedale. Le “debolezze” che ci appartengono sono in massima parte dovute alla visione assistenziale che si ha della disabilità, alla scarsa consapevolezza che ogni essere umano dev’essere parte attiva del meccanismo che fa funzionare il Paese. Ma noi diretti interessati lo pensiamo davvero?
Affermiamo di non volere sconti né privilegi, domandiamo diritti e opportunità, magari anche doveri, ma alla resa dei conti alcuni di noi ancora si arrabbiano, se qualcuno vedendoli non concede un vantaggio, anche quando non è indispensabile. Creiamo noi stessi confusione, da un lato giustamente irritati dalle forzature retoriche che circondano la disabilità, dall’altro fin troppo ligi nel ribadire il ruolo che diciamo di subire, ma nel quale in realtà stiamo piuttosto comodi. Predichiamo bene e razzoliamo male. Beh, lasciatemelo dire, non ci facciamo una gran bella figura.