Alessandro, musicista che divenne “autonomo per scommessa”

Una quarantina d’anni fa, Alessandro Belaeff ha imparato ad essere “autonomo per scommessa”, in un’epoca in cui alla disabilità si rispondeva con la mera assistenza. Ancora recentemente, però, a lui che è un apprezzato musicista e che si è trasferito a Parma dalla sua bella, ma inaccessibile Napoli, è capitato di imbattersi in locali che gli hanno revocato il contratto già firmato, perché «è meglio pagare la penale che far esibire un cantante in carrozzina che potrebbe fare impressione ai clienti»…

«Napoli è per tutti il paese del sole e del mare. Napoli, per chi come me usa una sedia a rotelle, è solo una città in salita. La mia bella e inaccessibile città è un luogo con cui non ho potuto fare amicizia».
Così Alessandro Belaeff, musicista, racconta la sua storia d’amore e di barriere, come sa fare soltanto chi ha imparato ad essere “autonomo per scommessa”, in un’epoca in cui, circa quarant’anni fa, alla disabilità si rispondeva con la mera assistenza, cioè con quel genere di intervento che crea dipendenza. Per chi voleva essere autonomo, infatti, non c’erano molti incoraggiamenti, semmai qualche rimbrotto a proposito della «pazzia di certe scelte».

Alessandro Belaeff

Alessandro Belaeff

Alessandro parla della sua normalità incompresa. Usare una sedia a rotelle, nell’immaginario collettivo legava la persona a una condizione di inferiorità. Si chiamavano «svantaggiati», «meno fortunati», «poveri infelici»; li si definiva «inchiodati» alla loro sedia, cuore anima e cervello compresi. L’idea di studiare per coltivare i propri talenti, di lavorare per sostenersi autonomamente, di amare, riamati, era considerata illusione.
Alessandro non voleva restare in casa come fosse una prigione, com’era successo quando aveva solo 10 anni e la mamma non poteva più trasportarlo in braccio, lungo le scale, per condurlo a scuola. E così “la scuola” si era ridotta alla sfilata in casa di una galleria di insegnanti. Niente compagni e odore di gessetti. Niente batticuori per una ragazza.
Poi gli amici lo tirano fuori e in parrocchia Alessandro incontra la musica e nel tempo ne fa una professione. A Napoli non mancano le opportunità di lavorare come musicista, ma l’inaccessibilità della città gli impedisce di onorare tutti gli impegni. Tutta la vita diventa sempre più limitata e Alessandro non può fare altro che trasferirsi altrove. Arriva così a Parma, dove vive ancora oggi, città che lo accoglie che gli dà finalmente respiro. Lavora presso diverse ditte e continua a cantare, arriva anche a mettere su un’orchestra di dieci elementi. E quando per un periodo si stanca di andare in giro per gli spettacoli, lascia la musica e sperimenta altro. Per esempio, allena per vent’anni una squadra di calcio.

E intanto si sposa, diventa papà di due figlie. Riprende a suonare. Gode della capacità di autodeterminarsi nella vita, cosa che da ragazzino non osava sperare.
E va bene così, anche se è tutta una conquista: è la realtà, non è «la pazzia di certe scelte». Tutto, in questa storia, ha il sapore di un riscatto: dal dolore bambino, dalla bellezza negata di Napoli, dall’indifferenza con cui la gente si pone di fronte alla disabilità altrui, facendo della persona con disabilità una persona diversa.
Alessandro adesso può permettersi di stare sullo stesso piano di chiunque e di fare della sua condizione una caratteristica utile, un richiamo che per un artista è importante perché suscita curiosità e attenzione.
A volte càpita però che l’attenzione sia “troppa”, malata, supponente. Il proprietario di un locale prestigioso, che aveva avuto contatti solo con l’impresario di Alessandro, nello scoprire che quel signore in carrozzina che si aggirava tra attrezzature e strumenti era il “suo” cantante, revocò immediatamente il contratto. Meglio pagare la penale che far esibire un cantante in carrozzina che «potrebbe fare impressione ai clienti». E quando vent’anni dopo capitò la stessa cosa, in un altro luogo, per lo spettacolo della notte di Capodanno, si riaprirono tutte le ferite e Alessandro denunciò la cosa alla stampa locale.
Fu solo una coincidenza, ma da quel momento Alessandro non fu più chiamato per le serate. Oggi si pone delle domande sulle riserve mentali della gente, cerca di capire a chi o a cosa possa servire usare una sedia a rotelle come discriminante e negare di fatto l’accesso al lavoro in un campo in cui il mercato non manca e tutti possono avere spazio. Si interroga sul senso di quella frase:«fare impressione ai clienti».

Purtroppo ci sarà sempre una sacca di persone che vivono per difendere le proprie certezze, che hanno paura di cambiare registro, nemiche delle buone tensioni, dell’armonia tra diseguali, della bellezza casuale. Persone che purtroppo appesantiscono l’aria che tutti respiriamo e che mortificano, seppure per un attimo, l’evoluzione del pensiero.
E sovviene, quasi per necessità, il ricordo della mamma di quella ragazza del Sud, che non trovava un DJ disposto ad animare la festa del diciottesimo di sua figlia per via della paralisi cerebrale della ragazza. «Appena ho letto il messaggio su Facebook – racconta Alessandro – ho preso tutta l’attrezzatura e sono partito: una corsa di mille chilometri per suonare le cose che le piacciono di più. Una festa bellissima per una ragazza che se la merita, come le mie figlie, come tutte le ragazze che sbocciano».
Non ha voluto compenso, Alessandro. Gli è bastato realizzare il sogno di una ragazzina e rendere a tutti noi un atto di giustizia. Poi è tornato ad essere ombra, in cassa integrazione e senza musica.

Il presente testo ne riprende quasi integralmente – con minimi riadattamenti al diverso contenitore – uno già apparso  in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “Alessandro che non può cantare perché in sedia a rotelle”. Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.

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