Le foto di quel giovane barbiere inglese che taglia i capelli del bimbo autistico senza disturbarlo, hanno fatto, in questi giorni, il giro del mondo. Con “italico orgoglio”, sono andata a rispolverare una pagina del mio diario personale, risalente a dodici anni fa, quando capitò a me di andare dal barbiere con mio figlio…
«Nessun calendario audace alle pareti e tanto meno sguardi sfuggenti e carichi di sottintesi, al mio ingresso con il figlio settenne in braccio. Il clima del primissimo pomeriggio è rilassato, il negozio è piccolo, ma di atmosfera, una vetrata lo separa dalla strada. Tre postazioni davanti allo specchio. Quella centrale è vuota; a sinistra un signore legge il giornale con i bicchierini delle meches in testa; a destra, un altro è abbandonato sul poggiatesta, il viso avvolto dentro una nuvola di spugna candida e calda.
E un po’ mi vergogno di aver pensato a male. Pregiudizi, certo. Di sicuro, ignoranza: ad una signora non capita tutti i giorni di sedersi dal barbiere, un’altra tappa del viaggio strano con mio figlio autistico.
Lui, infatti, non sopportava più la frenesia e i rumori del negozio del mio parrucchiere: i sibili di più asciugacapelli accesi contemporaneamente, insieme ai parlottii e ai vocii delle signore, avevano saturato la sua capacità di resistenza. La consapevolezza che il parrucchiere avrebbe potuto dedicargli solo pochi minuti, ha saturato la mia. Sono andata via scusandomi, seguìta dal dispiacere sincero del titolare. E con la sensazione che lui, mio figlio, fosse un’“incombenza” e un “dovere da assolvere”, più che un cliente. E a dirla tutta, forse era un’incombenza e un dovere da assolvere, più che un figlio.
Eppure lo so che per rispondere all’autismo nello spicciolo quotidiano, ci vogliono strategie. Tradotto, bisogna sollecitare la fantasia; in una parola, giocare è la soluzione.
Paolo ha una bella testa calva e curata; con il pizzetto, gli orecchini a cerchietto, i tatuaggi, i bracciali e le catene al collo sembra il “Genio della Lampada” di Aladino. Ha gli occhi buoni e il sorriso da bambino. Mi piace il contrasto tra un giovane “alternativo” e il mestiere antico che esercita, con il suo carico di saperi. Sa di buono: l’ho preferito al più tranquillizzante barbiere di mio marito, che già una volta ha agito sui capelli del piccolo, eliminando il problema alla radice, rasandogli cioè la testolina con la macchinetta, una scelta esteticamente infelice per via delle orecchie a sventola ad esaltare la magrezza del visetto.
Mentre aspetto seduta sul divanetto, l’imbarazzo aumenta: capisco di aver violato un angolo di riserbo maschile, che è peggio che infrangere un tabù. Temo di avere “infranto il senso del pudore” dei clienti. E mi duole. Anche perché con Paolo c’era un accordo: sarei arrivata in un momento di vuoto per non disturbare il bambino con i rumori; in realtà, per non invadere spazi riservati altrui, assolutamente altrui. E invece ho trovato due clienti. «Magari torno più tardi», propongo un po’ seccata. «E perché? Siamo pronti!» risponde Paolo con un grande sorriso. E prende il bimbo in braccio.
E sembra che non abbia fatto altro nella vita che prendere bimbi autistici in braccio. Che significa farsi toccare la faccia, permettergli di assaggiare la testa, sentire la diffidenza e vincerla. Significa liberare e gratificare gesti ruvidi e rischiare di prendere in faccia lo sfarfallio delle dita agitate in aria in segno di gradimento. È ascolto e accoglienza. L’approccio amichevole abbatte tutte le barriere della presunta incomunicabilità dei bambini autistici.
Tuttavia, qualcosa non va. Il piccolo non sta seduto da solo, non accetta la mantellina che gli nasconde le braccia, non sta fermo per il fastidio dello sforbiciare vicino alle orecchie e dietro la nuca, va in panico se non può controllare Paolo.
Mi rassegno. Mi faccio legare la mantellina al collo, mi siedo sulla poltrona come fosse la “sedia elettrica”, con lui in braccio. Le poltrone dei barbieri sono monumentali, tanto diverse dalle poltroncine dei nostri parrucchieri. Pelle nera e acciaio lucidissimo, mi sostiene e non solo fisicamente. Sedersi là sopra e andare in trance dev’essere tutt’uno. L’immagine riflessa nello specchio del signore alla mia destra, immerso nelle sue spugne calde, sembra confermarlo.
Il bimbo ha già afferrato un pennello da barba e sta per assaggiarlo. Lo distraggo con la sua favola preferita, quella dei Tre porcellini, ovviamente imitando la voce dei porcellini e del lupo (i due signori ai miei lati sono immobili). Il piccolo non mi fa finire la favola che si inquieta; e devo passare alle canzoni. In sequenza: La canzone del Piave, Il valzer del moscerino, La ninna nanna del chicco di caffè, Vacanze romane, Di sole e d’azzurro, E poi (Giorgia), Il valzer dei sogni (dal film Anastasia della Walt Disney). Ormai senza vergogna, assecondo le sue “richieste” per sedare l’ansia e permettere a Paolo di finire il lavoro.
Finalmente mi posso alzare. Lui è bellissimo, io sembro un lupo mannaro, piena di capelli tagliati sugli avambracci e sul viso. Di sottecchi guardo i signori che si sono trasformati in statue di sale per aiutare quel piccolo cliente. Noto che quello di sinistra, con i bicchierini delle meches in testa, è fermo da mezz’ora sulla stessa pagina di giornale. Mi inquieta quello di destra, ancora sprofondato negli asciugamani. Chissà cosa pensa. Mi consola il fatto che non mi abbia vista, che non mi riconoscerà mai.
Guadagno l’uscita, ma all’improvviso la nuvola di spugne bianche e calde si anima e domanda: «Signora, ma come finisce ai porcellini, il lupo se li mangia?».
Una risata seppellirà autismo e dintorni!