ISTAT, Censis, Associazioni, media, disperate storie di vita ci testimoniano tragicamente e ormai da decenni di come esista nel nostro Paese un popolo silenzioso di persone, molto spesso donne, che rinunciano al loro lavoro o che lo riducono e rendono marginale per assistere un familiare. È troppo spesso un impegno che va ben oltre le dovute responsabilità genitoriali o familiari, gli affetti, il dovere di assistenza, finendo per assorbire ogni momento dell’esistenza. E questo in particolare quando sono in gioco severe limitazioni funzionali, pluriminorazioni, gravi decadimenti cognitivi, salute mentale compromessa o importanti menomazioni intellettive.
L’impatto di questo impegno totale è pesantissimo non solo in termini di isolamento, segregazione, dipendenza, ma anche di salute e di impoverimento (concetto non certo solo economico). Solo un’interpretazione di comodo può archiviare questa situazione, che riguarda milioni di persone, nel novero dei generosi gesti di amore, di affetto filiale o genitoriale.
È un’interpretazione che nega l’evidenza dei fenomeni: il welfare familiare e, ancora di più, i caregiver familiari sono la conseguenza prima dell’assenza e delle lacune dei servizi alle persone, alle famiglie, all’inclusione. La perdita di opportunità, le forme malate di dipendenza, la rinuncia al lavoro, il degrado progressivo della salute, l’autocoercizione, la mancata copertura previdenziale, la procreazione di future generazioni di esclusi, non possono essere certo imputate ad altrettanti atti di amore.
Questo è pregiudizio – accomodante e pigro pregiudizio – fatalismo distruttivo che assolve le responsabilità delle politiche sociali e sociosanitarie e dell’assenza voluta di risorse e di visioni che consentano innanzitutto il diritto di cittadinanza, salute inclusa.
E una “pacca sulla spalla” a chi è in detenzione coatta assieme alla persona con disabilità (ricordate la Convenzione ONU?) non si può certo definire un aiuto.
Da anni si attendeva un segno, una svolta, una programmazione seria e di lungo periodo che liberasse queste risorse umane, che consentisse l’inclusione sia delle persone con disabilità che dei loro caregiver familiari. È quindi con forte delusione che leggiamo e rileggiamo la Proposta di Legge (Atti della Camera 3414) il cui unico merito è quello di essere la prima a ventilare Disposizioni per il riconoscimento e il sostegno dell’attività di cura e di assistenza, lasciando però molto a desiderare quanto a sostanza ed effetti pratici.
Che sia impregnata di quello stesso pregiudizio di cui si scriveva sopra lo si comprende già dalla lettura della relazione introduttiva: l’attività di caregiver familiari è una scelta generosa che va valorizzata e sostenuta; è un bene sociale. E il refrain della «volontarietà e della gratuita» ripercorre tutto il testo dell’articolato.
Ignorando volutamente che quella “scelta” è perlopiù forzata e costretta dall’attuale assenza o limitazione di alternative, quello che ne esce è fortemente distorsivo e soprattutto per nulla interviene per rimuovere le cause reali. L’attività del caregiver familiare viene anzi, per certi versi, incentivata con apparenti quanto inconsistenti benefìci, rafforzando quello che in termini volutamente provocatori si può marchiare come “caporalato di Stato”.
Quella Proposta di Legge, dunque, riconosce sì il disagio e lo stress dei caregiver, ma l’unico sostegno che offre – gratis e con il supporto delle reti solidali e il buon vicinato – è l’eventuale supporto psicologico e relazionale. Anche in questo caso niente sostegni reali che rimuovano le cause di quello “stress”; nulla in termini di copertura previdenziale, di supporto alla salute nella sua accezione più complessiva. Niente in termini di servizi alternativi.
Quella dei caregiver è una prestazione gratuita e volontaria: il testo della Proposta sembra più una raccomandazione rivolta ai servizi (sociali, sociosanitari, sanitari) affinché usino al meglio questa opportunità, coinvolgendo gli assistenti nella programmazione dei servizi («ove necessari» all’assistenza!).
Scompaiono anche i diritti delle persone con disabilità, come se la Convenzione ONU (mai citata dalla Proposta) non esistesse. Nel testo, infatti, si parla deamicisianamente di «persone care», il che già la dice lunga sulle inclinazioni pietistiche della Proposta. Oggetti di assistenza deprivati di ogni libertà, anche minima di scelta. Financo il diritto alla privacy o alla costruzione del loro progetto individuale è delegato – in ogni caso – al caregiver familiare.
Di prepensionamento, poi, non si parla, se non in forma di ipotesi in cui privilegiare le donne che non riescano a conciliare i temi di lavoro e di assistenza, rafforzando supinamente in tal modo il pregiudizio che il lavoro di cura sia “privilegio muliebre” e non il risultato di secoli di esclusione. Prepensioniamole – orsù! – perché possano dedicarsi ancora più attivamente al lavoro di cura che lo Stato non garantisce!
E per il loro reinserimento nel mondo del lavoro dopo l’eventuale dipartita della «persona cara»? La Proposta avanza una soluzione quanto meno contorta: vengano riconosciuti come crediti formativi i loro anni di esperienza – non professionale, ma gratuita e volontaria, beninteso – opportunità da usare per diventare operatori socio-sanitari professionali. Non importa se il caregiver aveva una professionalità diversa prima di diventare tale: rimanere nel “giro assistenziale” potrebbe essere utile a lui e al sistema.
Una Proposta deludente, dunque, e da bocciare sonoramente. Ci si attende piuttosto concretezza e interventi che da un lato evitino il perpetuarsi di un sistema deleterio e segregante. Che intervenga rinforzando i servizi di assistenza, di inclusione, di vita indipendente, di sostegno all’autonomia personale, di integrazione dei servizi, diretti o indiretti, di supporto alla genitorialità. Qualche esempio, qualche stramaledetta buona prassi ce l’abbiamo.
E dall’altra parte si agisca subito per le situazioni segreganti che esistono, garantendo reale sollievo alle famiglie e alle persone con disabilità, con maggiore attenzione alla salute stessa dei caregiver e al loro diritto umano di mantenere relazioni.
Perché la loro sofferenza non è un “bene sociale” e delle pacche sulle spalle ce ne facciamo tutti ben poco.
Il Servizio HandyLex.org propone un’analisi dettagliata dei singoli contenuti della Proposta di Legge Atti della Camera 3414, Disposizioni per il riconoscimento e il sostegno dell’attività di cura e di assistenza. Ne suggeriamo caldamente la consultazione.