Scrivo con un certo peso sulle spalle. Meglio sulle spalle che sullo stomaco, ma sempre fardello rimane. È un fardello ingombrante, di quelli che sai che c’è dentro qualcosa di buono e ti rinvigorisce l’idea di condurre a lieto fine un bene prezioso, ma la schiena comunque si piega. Il respiro si fa affannoso. La penna arranca. La voce tremula nel dettare al computer e il mouse incerto, spaurito, si muove sul monitor alla ricerca delle parole corrette da sostituire con gli esatti pensieri.
Parlare di Franco Bomprezzi non è mai facile. Non lo era prima, quando potevo rompergli le scatole e chiedergli spiegazioni, perché non mi andava di disturbarlo, e tanto meno lo è adesso, perché spiegazioni non posso più chiedergli.
Un proverbio dice che «quando nascono sono tutti belli, quando si sposano ricchi e quando muoiono bravi». Io non so se Franco fosse stato bello alla nascita o ricco al matrimonio, ma di sicuro è morto bravo. Lo è anche vissuto, a parte che era interista è questo gliel’ho sempre perdonato. Stiano come stiano le cose, il mio maestro è stato fatto “santo subito”. Bravo. Anzi, giusto! Se lo meritava.
Quel che mi ha stupito, e che non si meritava, è che immediatamente sia aumentato il numero dei credenti, di proseliti, degli amici a tutti i costi e di quelli che hanno trovato vanto nell’aver visto un tizio che aveva sentito da un altro che aveva letto di un amico di un amico di Franco che Franco era bravo. E santo, naturalmente. L’abilità di Franco, così come la sua umanità, era sotto gli occhi e alla portata di tutti. La sua amicizia pure. Ma l’amicizia postuma o vagheggiata sa di allucinazione. E l’allucinazione si addice ai fantasmi, non ai santi.
Franco, da giornalista vero, amava la verità. Nessun dubbio che ricercasse le fonti e la loro autenticità. Quanto mi piacerebbe potesse farlo da dove si trova ora riguardo alla schiera di assoluti conoscenti e affannati estimatori fiorita dopo quel 18 dicembre 2014. Ne tirerebbe fuori un’inchiesta. Un dossier numeri alla mano e sorriso sulla bocca. Arguto, leggero, pungente.
Io non ero amico di Franco. O almeno non lo ero come molti intendono l’amicizia. Non uscivamo insieme, e ci è rimasta una pizza in arretrato. Non parlavamo di donne. E non ci scambiavamo i vestiti. Qualche volta parlavamo di politica e ci sfottevamo sul calcio. Spesso sostenevamo le stesse cause e sovente abbiamo lavorato assieme. Ai tempi di «Superabile» [la testata «SuperAbile INAIL», N.d.R.] mi disse che mi considerava “una sua firma” e mi trasmise molti suggerimenti, più o meno palesi, per migliorare la mia scrittura. Per questo era, ed è, il mio maestro. E questo, sia chiaro, non lo dico ora, ma glielo dicevo in faccia. E lui era costretto ad accettarlo, pur con la sua irrinunciabile modestia.
Qualche volta mi ha tirato qualche pacco. Per un po’ di tempo ci siamo persi e poi ci siamo ritrovati così, come capita alle persone che lavorano nello stesso campo. E che si stimano. Sì, perché lui mi stimava, altrimenti non sarei qui, in questo spazio, a scrivere queste righe. Medaglia sul petto, esplosione dell’ego, strumentale elogio della nostra amicizia e allusione a Sordi con quel presuntuoso «Perché io so’ io e voi non siete un…» del Marchese del Grillo.
Certo che no. È che a me gli amici piace difenderli. E se io e Franco non eravamo amici come certi intendono che si debba essere, pazienza, io lo difendo lo stesso. Dall’ipocrisia e dal travisamento.
Franco era, ed è, unico, inimitabile. Non ci sarà mai un altro Picasso, un De Sica, uno Shakespeare o un Corrado (lo “scognomato”), mettiamoci l’anima in pace. Non ci sarà più un altro Franco Bomprezzi ed è inutile ricercarlo nelle cose da fare. Se la sua lezione ci è servita, quello che ancora deve fare il mondo della disabilità – e mi dispiace dover parlare di mondo della disabilità come fosse una cosa a parte rispetto alla comunità in generale – ognuno di noi non deve farlo per lui o per l’amicizia, vera o presunta, con lui, ma deve farlo perché il percorso che egli ha pesantemente iniziato a tracciare non venga occluso dalla prima alluvione di perbenismo.
Non ha senso dire che un progetto vada portato avanti “per Franco”, a meno che non lo si sia iniziato assieme. Le idee si concretizzano sulla base della scuola che abbiamo seguito. E Franco è stata la nostra scuola, come lo sarà per le generazioni future. Ma Franco non è un’immagine. Una bandiera da strapparci di mano come al gioco che si faceva da ragazzi. Franco è un emblema. E i simboli rappresentano un ideale che va perseguito, non una figura da applicare qua e là quasi fosse un bollino di qualità.
La qualità dobbiamo darla noi. Noi abbiamo il dovere di fare ciò che lui ci ha insegnato a fare, se veramente vogliamo considerarlo per quello che è, cioè una pietra miliare nella storia della disabilità del nostro Paese. È sbagliato fare le cose “per lui”. Vanno fatte per la società, per chi ha bisogno, questo è quello che lui ci ha insegnato. Non voglio più sentir dire: «Questo dobbiamo farlo per Franco…». Questo dobbiamo farlo per tutti.
Io voglio vedere presto una via di Milano a lui intitolata. Voglio che la gente legga il suo nome sul navigatore satellitare o sulla targa all’inizio della strada o all’angolo di una piazza. Voglio che si rifletta sul suo nome. Che resti traccia di lui per sempre a Milano, la città dove maggiormente ha lasciato il segno. Fuori, fra la gente. Dove gli piaceva stare e per cui ha vissuto. Una strada per tutti, dove circolino le idee e la voglia di fare e l’ipocrisia non abbiano spazio.