«La prassi condotta dall’INPS in quei casi non ha garantito affatto il cittadino e ancor meno il cittadino con disabilità»: a cosa si riferisce pronunciando queste parole Laura Abet, avvocato del Centro Antidiscriminazione “Franco Bomprezzi” della LEDHA, la Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità che costituisce la componente lombarda della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap)? Si riferisce allo svolgimento e alle conseguenze di quei Piani di verifica straordinaria dell’invalidità civile, che hanno visto l’INPS chiamare circa 800.000 persone con disabilità, tra il 2009 e il 2012, come stabilito dall’articolo 20 della Legge 102/09. Un’attività di ispezioni a tappeto tramite la quale, va ricordato, ci si era posti un obiettivo del tutto esplicito, vale a dire la «riduzione della spesa in materia di invalidità», proprio come si intitolava l’articolo 10 della Legge 122/10.
Ebbene, «per affrontare quei Piani – denuncia ora la LEDHA – l’INPS ha organizzato una vera e propria task force di avvocati e medici legali, spesso inadeguati a svolgere tale mole di controlli. Questi ultimi si sono quindi trasformati in una mera attività di recupero crediti, senza alcuna verifica dei soggetti interessati e del singolo caso individuato. Durante queste sessioni di controllo, infatti, non veniva verificato lo stato di handicap (ex Legge 104/92), né era prevista la possibilità di riconoscere un aggravamento della condizione di disabilità e – di conseguenza – una percentuale superiore rispetto a quella determinata in precedenza. L’obiettivo, pertanto, è stato esclusivamente quello di tagliare e “togliere”. Togliere del tutto l’indennità di accompagnamento, oppure diminuire la percentuale di invalidità per ridurre l’erogazione delle provvidenze. È successo perciò che a seguito di quei controlli, sono stati modificati i verbali di invalidità civile, senza comunicare chiaramente ai diretti interessati (spesso persone con disabilità intellettiva) l’entità dei “tagli” alle provvidenze economiche. Inoltre, l’INPS non ha provveduto a sospendere o a revocare l’erogazione delle provvidenze previste in precedenza, salvo poi procedere – talvolta a diversi anni di distanza – a una successiva comunicazione, per chiedere la restituzione di cifre che nel frattempo sono lievitate, fino a raggiungere importi astronomici».
In totale, dunque, il Centro Antidiscriminazione della LEDHA ha seguito finora in Tribunale dieci ricorsi presentati da altrettante persone con disabilità, per contestare quelle richieste di rimborso da parte dell’INPS, ammontanti fino a 54.000 euro.
E vi è un ulteriore elemento da segnalare: le lettere con le richieste dell’Istituto risultavano incomprensibili non solo ai cittadini con disabilità, ma agli stessi professionisti della materia, manifestando quindi un intento discriminante e in aperta violazione – per dirne solo una – del principio riguardante il diritto all’accesso alle informazioni, sancito dall’articolo 21 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, che ormai da sette anni è la Legge 18/09 dello Stato Italiano.
«E ancora – commenta Stefania Pattarini, avvocato di Milano che a fianco della LEDHA ha seguito i casi in giudizio – non sono stati considerati aspetti fondamentali quali la buona fede del cittadino con disabilità e la prescrizione, uniti alla non intelligibilità dei verbali di accertamento, che risultano incomprensibili ancor più per persone con gravi disabilità».
Un fatto in ogni caso è certo e cioè che i ricorsi raccolti e seguiti dalla LEDHA sono sicuramente assai pochi rispetto alle tante richieste di rimborsi inviate dall’INPS alle persone con disabilità. Ma è molto importante registrare che finora gli esiti delle azioni legali sono stati positivi: «Abbiamo già avuto molte sentenze positive – sottolinea infatti Laura Abet – e siamo ancora in attesa dell’esito definitivo delle ultime».
In pratica il Tribunale ha accolto le domande presentate dai legali della LEDHA, riguardanti la sussistenza del requisito sanitario per l’accompagnamento, accertato con effetto retroattivo anche di diversi anni precedenti alla richiesta di restituzione, e dichiarando quest’ultima inammissibile. E così l’INPS ha dovuto prenderne atto ed erogare l’indennità, compresi gli arretrati anche di due o tre anni.
«Le situazioni che il nostro Centro Antidiscriminazione si è trovato a gestire – ricordano dalla LEDHA – sono state realmente “kafkiane”. Tra le tante, la richiesta giunta a una persona con disabilità psichica al 100%, ma ben inserita nel mondo del lavoro, di restituire l’esorbitante cifra di 55.000 euro. Motivazione? Il fatto di svolgere attività lavorativa che, secondo l’INPS, rappresentava un motivo sufficiente a togliere l’indennità di accompagnamento. E ancora, siamo andati in tribunale varie volte, a fianco dell’avvocato Pattarini, per convincere il Giudice della necessità che la Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU) debba essere svolta da un medico specialista. Diversamente il rischio è di incorrere in valutazioni preconcette, oltreché discriminanti. In quei casi, per convincere i Giudici, è stato necessario approfondire le relazioni che si palesavano errate, affiancare gli assistiti e avere la capacità di aprirsi ad un tema troppo spesso visto come tabù».
Come detto, dunque, sono già stati numerosi i pronunciamenti positivi ottenuti dalla LEDHA, ultimo dei quali quello con cui il 22 gennaio scorso il Tribunale di Milano ha emesso una Sentenza di condanna dell’INPS, stabilendo che il ricorrente non debba restituire i 35.142 euro richiesti dall’Istituto. Una nuova vittoria di una persona con disabilità, che fornisce lo spunto ad Alberto Fontana, presidente della LEDHA, per lanciare un appello: «Sia questa, sia le vittorie precedenti – dichiara – devono essere un richiamo a tutte le persone con disabilità che ricevono o riceveranno lettere spesso incomprensibili, da parte di quegli stessi Enti che dovrebbero invece tutelarle. Non fatevi scoraggiare, reclamate i vostri diritti e rivolgetevi al nostro Centro Antidiscriminazione. Saremo al vostro fianco!».
«La possibilità di presentare un ricorso contro un Ente Pubblico – conclude Fontana – può sicuramente far paura, anche per la lunghezza dell’iter, che può durare più di un anno. E tuttavia l’esito dei ricorsi finora sostenuti rappresenta una buona certezza rispetto alla possibilità di ottenere una vittoria, una tutela dei diritti e di evitare di dover restituire all’INPS cifre importanti e non dovute». (S.B.)
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