La progettazione e l’organizzazione delle città e dei servizi dovrebbero considerare le diverse caratteristiche e le esigenze di chi abita e fruisce di quei luoghi. Una donna che deve conciliare i tempi di vita con quelli lavorativi, avrà esigenze e tempistiche diverse da quelle di un uomo che può permettersi di occuparsi solo del lavoro. Dal canto loro, persone con disabilità diverse avranno bisogno di strutture e servizi per la mobilità dotati di accorgimenti di accessibilità diversi. E considerazioni analoghe potrebbero essere fatte in relazione a molte altre diversità umane, alle diverse età, alle diverse nazionalità, alle diverse religioni, alla maggiore o minore disponibilità economica delle persone, e ad altre differenze ancora.
Il progetto denominato Stare di casa nella città: donne con disabilità, promosso dalla Casa delle donne di Ravenna – Associazione Liberedonne, e sostenuto dall’Assessorato alle Politiche e alla Cultura di Genere e da quello alla Partecipazione del Comune di Ravenna, intende riflettere e individuare gli elementi che caratterizzano, per criticità e risorse, il rapporto fra donne con disabilità e città reale, soffermandosi in particolare sulla mobilità e la sicurezza urbana.
La determinazione a centrare l’area di indagine sulle donne con disabilità scaturisce dalla considerazione che esse sono esposte a una discriminazione multipla, ingenerata dall’essere discriminate sia in quanto donne, sia in quanto disabili. Questo tipo di discriminazione è a sua volta distinto in tre categorie: discriminazione additiva, amplificatrice e intersezionale.
Piera Nobili, architetta, vicepresidente di CERPA Italia (Centro Europeo di Ricerca e Promozione dell’Accessibilità), contitolare dello Studio Othe di Ravenna, donna molto attenta alle questioni di genere, illustra in modo efficace queste tre categorie: «Una è la discriminazione additiva, che risulta da più fattori disgiunti tra loro. Un esempio di questo tipo di discriminazione è dato dalla donna che lavora e percepisce circa un 30% in meno di stipendio rispetto all’uomo a parità di mansioni; la stessa donna, se è anche disabile, paga un premio assicurativo superiore in quanto disabile. Quindi abbiamo due discriminazioni distinte tra di loro e che sono causate da altrettanti motivi differenti (l’essere donna e l’essere disabile), ma che in lei sono entrambe presenti».
«L’altra discriminazione – ricorda poi Nobili – è quella amplificatrice». In questo caso «i fattori discriminanti agiscono per sommatoria. Ad esempio, una donna con disabilità in quanto donna non vivrà certi luoghi perché li ritiene insicuri, non si recherà al parco nelle ore serali e notturne, e al contempo non vivrà quello stesso parco perché inaccessibile, non usabile. Qui la discriminazione si moltiplica in quanto donna e in quanto disabile».
«Infine – conclude la Vicepresidente di CERPA Italia – abbiamo la discriminazione intersezionale», che esiste «quando i fattori discriminanti non sono separabili perché interagiscono tra loro. Un esempio: una donna con disabilità in quanto donna e in quanto disabile proprio per intersezione tra queste due categorie vede negati molto spesso alcuni diritti, ad esempio il diritto alla salute e alla prevenzione, perché trova degli ostacoli ambientali barrieranti sotto diversi profili. Gli stessi screening (mammografico, pap test, visite ginecologiche), che qualunque donna in Italia ormai svolge con una certa abitudine, spesso sono molto discriminanti per le donne con disabilità perché né gli spazi, né le attrezzature tengono conto delle loro necessità. La mancanza di accorgimenti specifici accresce il disagio delle donne disabili nell’effettuare gli screening, che sono poco piacevoli per qualsiasi donna, sino al punto da rendere veramente difficoltoso l’accesso alla prevenzione e alla salute. Il problema non sono solo i luoghi e le attrezzature, è spesso anche lo stesso personale che non è accorto, non è preparato ad accogliere donne con disabilità che svolgono visite non solamente di ordine ginecologico, ma, ad esempio, anche oncologiche».
E nemmeno i tempi di visita tengono presenti le esigenze collegate alle donne con disabilità, «in quanto generalmente non vengono coniugati con i tempi di vita o semplicemente di spostamento troppo spesso dipendente da altri (parenti, amici, servizi). Oppure ci sono donne con un proprio nucleo familiare e che acquisiscono una disabilità in età adulta, che devono mediare i tempi personali, legati anche alla disabilità, con quelli del sociale (scuola, trasporti, commercio, sanità, lavoro ecc.) e dei familiari» (citazioni tratte dall’intervento di Piera Nobili nell’àmbito del seminario Progettare per tutti, organizzato da Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli, Peccioli – Pisa – 23 novembre 2012).
Il progetto avviato a Ravenna, che prevede l’uso di interviste narrative, si pone come obiettivo il coinvolgimento di almeno cinquanta donne, sia nate disabili, sia divenute disabili. Il target di persone coinvolte sarà quanto più possibile rappresentativo della situazione anagrafica della città romagnola, guardando quindi a donne di diverse età, nazionalità e forme di disabilità.
Stare di casa nella città è incominciato in questi primi mesi del 2016 e dovrebbe concludersi nel settembre prossimo. Per chi volesse collaborare o semplicemente approfondire: Associazione Liberedonne, Casa delle donne, Via Maggiore, 120, 48121 Ravenna (tel. 0544 461934, e-mail: casadelledonneravenna@gmail.com).
Il presente approfondimento è già apparso nel sito del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), con il titolo “Stare di casa nella città: donne con disabilità” e viene qui ripresa, con alcuni minimi riadattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.
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