Nella vita di un genitore esiste un solo primo passo del proprio figlio. È così che ci viene detto, e come le prime parole, dicono che è la cosa più importante che ci possiamo aspettare da lui… Ma non è così. Le “epifanie”, nella vita di una persona, possono essere diverse, anche quando un figlio non è più piccolo, anche quando è un “ragazzo particolare”.
Sono qui per raccontare dell’ultima “epifania” di mio figlio Giovanni, e per chi non conosce il termine epifania, esso significa manifestazione di qualcosa di nuovo nella nostra mente o intorno a noi. Le “epifanie” giungono sempre inaspettate e sono precedute da eventi apparentemente banali. Nemmeno questa fa eccezione.
Avevo deciso di andare a vedere a Roma la mostra di un’amica, presso i Musei Capitolini, e Giovanni – anche un po’ inaspettatamente – è voluto venire con me. Così ci siamo messi in movimento, io, lui e mio nipote che guidava la macchina, e siamo arrivati ai Musei Capitolini.
Giovanni non è rimasto particolarmente impressionato, e nemmeno ce lo aspettavamo; già sembrava strano che fosse voluto venire, non manifesta in genere curiosità verso i musei, è un tipo più pratico. Ma non ha urlato come fa di solito nei luoghi ampli che hanno una buona eco, e questo era un buon risultato.
Siamo arrivati nella saletta della mia amica, e lei ha cominciato a farci “sentire” le statue, per meglio dire i busti, che avevano realizzato. Anche Giovanni ha toccato i busti, e anche questo è stato un po’ insolito, di solito non è così disciplinato.
La mia amica mi ha mostrato il ritratto di suo padre, che aveva scolpito, un’opera che ho ammirato molto – grazie Rosella! – e abbiamo continuato il giro.
E poi siamo arrivati a lei. Un busto di donna che rappresentava il dolore. I tratti erano contratti per la sofferenza, e una lacrima solcava il volto, non una lacrima tonda e innaturale, ma quella scia che si forma quando piangiamo senza riuscire a trattenerci. Quando l’ho toccata, ho pensato che era una lacrima particolarmente realistica.
Poi abbiamo fatto toccare a Giovanni. Gli abbiamo parlato del dolore, e gli abbiamo fatto toccare la lacrima. Le sue mani hanno esplorato il volto, e poi quella lacrima che dall’occhio scivolava giù. E lui ha baciato la statua, con tenerezza, sulla guancia. Ha riconosciuto la verità di quell’emozione, e ha reagito di conseguenza, perché quel viso scolpito ha condotto l’emozione, il dolore, all’interno della sua mente e della sua coscienza emotiva.
Ero a pochi centimetri da lui, quindi l’ho vista bene, questa “epifania” di mio figlio. Questo passo nel mondo delle emozioni, anzi della loro rappresentazione.
Poi è tornato il solito Giovanni, è diventato irrequieto, siamo andati al bar per terminare il tutto con una cioccolata calda, un ginseng e una fetta di torta (sono golosa quanto mio figlio).
Però era successo. Occhi e mani hanno condotto il cervello verso una scoperta importante, e questo è avvenuto in un ragazzo con autismo di diciotto anni compiuti.
Dedico questo racconto a chi crede che questi ragazzi, al compimento del diciottesimo anno, non apprendano più nulla. Lo dedico a tutti coloro che pensano all’autismo come a un mondo chiuso in se stesso, e che manca di comprensione emotiva con il nostro, di mondo.
Lo dedico anche all’artista di quel busto, che non c’era, ma che ringrazio per avere regalato a Giovanni la sua emozione chiusa nel marmo.
E lo dedico anche a tutti coloro che di Giovanni si occuperanno. Non arrendiamoci: dentro una persona con un pensiero differente c’è un mondo che non dobbiamo stancarci di cercare e di osservare. Che magari si esprime con un bacio che noi, cinici osservatori ormai indifferenti della nostra stessa umanità, non troveremmo il coraggio di dare.
Giovanni, e i ragazzi come lui, hanno in consegna forse quella parte migliore che la nostra mente distratta ha lasciato cadere per strada. Ricordiamocelo, quando pensiamo a loro come a dei “fardelli da sopportare” e non a delle risorse da utilizzare.
Ricordiamoci che sono rimasti gli unici a saper consolare una statua.