Piccolo test: si deve ristrutturare un palazzo storico per l’apertura di un negozio. Tre gradini separano il negozio dalla strada. Il progettista cosa può fare per garantire l’accesso a tutti, anche alle persone su sedie a ruote o, semplicemente, a una mamma con il passeggino?
A) Nulla, il palazzo è storico e vincolato.
B) Può inventarsi una soluzione alternativa e un po’ fantasiosa, come prevedere per la clientela a mobilità ridotta un ingresso secondario, utilizzabile solo a richiesta.
C) Anche in presenza di un diniego motivato della Soprintendenza, può installare senza problemi una rampa in legno sull’ingresso principale.
Alzi la mano chi sa che la risposta giusta è la C. Purtroppo, però, non la pensano così molti progettisti e anche molti tecnici chiamati a controllare i loro progetti. Infatti, per pigrizia, per vecchie consuetudini, per mancanza di conoscenza di quello che la normativa richiede, spesso si crede che la tutela del bene architettonico abbia in ogni caso la meglio sui principi dell’accessibilità e della parità dei diritti. Paradossale, poi, è che questo avvenga, anche per lavori di una certa importanza, in città dove l’Amministrazione è attenta ai cittadini più fragili.
Il caso di specie – ma purtroppo l’Italia ne è piena – si è verificato nel centro di Reggio Emilia, per l’apertura del negozio di una nota catena d’abbigliamento in un edificio storico che ha cambiato la sua destinazione d’uso da privato ad aperto al pubblico.
Il CRIBA Emilia Romagna (Centro Regionale di Informazione sul Benessere Ambientale), che proprio a Reggio Emilia ha sede, è stato interessato della vicenda solo dopo il “patatrac”, ovvero dopo l’apertura del negozio e la protesta al Sindaco di una donna su sedia a ruote, indignata per non poter entrare liberamente nel negozio stesso, se non avvisando il personale con un campanello posto all’ingresso principale.
La stampa ha seguito per un po’ la vicenda. Per il progettista l’ingresso per i disabili era stato previsto nel progetto architettonico: una volta completato il restauro complessivo dell’isolato, si sarebbe ricavato un accesso in piano presso una galleria commerciale. Quindi la soluzione della visitabilità condizionata al suonare il campanello avrebbe dovuto essere solo provvisoria.
Questa soluzione sarebbe stata accettabile se, di fatto, l’ingresso secondario non fosse attivabile solo dal personale con una tastiera a codice, dal momento che non è presidiato. La progettazione accessibile è stata quindi vanificata dall’organizzazione interna del negozio, che ha di fatto trasformato un ingresso al pubblico in un ingresso di servizio o in uscita di sicurezza con porta tagliafuoco. Ecco, quindi, quello che oggi succede: la persona con disabilità deve prima suonare all’ingresso principale, poi aspettare l’arrivo del personale che la accompagna e la fa accedere dall’ingresso sul retro. La visitabilità condizionata, discriminante e non autonoma, è diventata la regola.
«Questa situazione si è generata da una prassi diffusa e sbagliata – dice Alessia Planeta del CRIBA Emilia Romagna -. Chi ha visto che l’accessibilità era condizionata (sempre che fosse stato dichiarato nel progetto) doveva comunicare l’inammissibilità della soluzione. Se invece la modalità non era dichiarata, ma il progetto reca solo l’accessibilità da un secondo ingresso, allora la responsabilità è del progettista che ha riconfigurato la disposizione interna. Solo la presenza di un parere motivato della Soprintendenza che negasse ogni possibilità di intervenire sull’ingresso principale avrebbe reso concepibile l’accessibilità condizionata come alternativa inclusiva per i clienti. Concepibile non vuol dire giusta, vuol dire che la diffusione di questa soluzione, specie negli uffici pubblici in sedi storiche (soluzione in questo caso legittima e possibile, se l’edificio non è sottoposto a ristrutturazione totale), l’ha messa “a catalogo” delle soluzioni progettuali da parte dei progettisti, anche comunali, senza alcuna verifica. Tipo: “la vedo ancora, quindi è una soluzione possibile”, senza però informarsi bene sui criteri».
Il caso in questione corrisponde perfettamente a questa prassi: i progettisti, infatti, hanno riproposto a Reggio Emilia la soluzione adottata in un negozio della stessa catena a Pisa. La normativa, però, prevede altro. Innanzitutto, l’articolo 24, comma 6 della Legge Quadro 104/92 prescrive che, a prescindere dalla presenza o meno di opere edilizie, nel cambiamento di destinazione d’uso di un edificio da privato ad aperto al pubblico si debba presentare una dichiarazione di conformità alla normativa vigente in materia di abbattimento barriere e che, quindi, ai sensi del Decreto Ministeriale 236/89, l’edificio deve essere accessibile. Il rilascio del certificato di agibilità e di abitabilità è condizionato alla verifica tecnica della conformità della dichiarazione.
Riguardo poi al comma 7 del medesimo articolo 24 della Legge 104/92, esso stabilisce che «tutte le opere realizzate negli edifici pubblici e privati aperti al pubblico in difformità dalle disposizioni vigenti in materia di accessibilità e di eliminazione delle barriere architettoniche, nelle quali le difformità siano tali da rendere impossibile l’utilizzazione dell’opera da parte delle persone handicappate, sono dichiarate inabitabili e inagibili. Il progettista, il direttore dei lavori, il responsabile tecnico degli accertamenti per l’agibilità o l’abitabilità ed il collaudatore, ciascuno per la propria competenza, sono direttamente responsabili».
«Ma dello stesso articolo 24 della Legge 104/92 – sottolinea Planeta – è importante anche il comma 2 che, in sintesi, prevede che sull’ingresso principale si possa mettere un’opera provvisionale, come per esempio una rampa in legno, anche se ingombrante e lunga, solo in presenza del divieto della Soprintendenza a installare una piattaforma fissa; altrimenti si può aprire al pubblico il secondo ingresso, ma indiscriminatamente».
«Ci rincresce di quanto accaduto – conclude la rappresentante del CRIBA Emilia Romagna -, la soluzione migliore è sempre quella di formare e aggiornare tutti i tecnici, sia pubblici che privati, perché le persone con disabilità. sono sempre più consapevoli dei loro diritti e dell’evoluzione della normativa. In tal senso, il nostro servizio è sempre a disposizione dell’Ufficio Tecnico per una valutazione preventiva di tutti quei progetti che possono avere un impatto significativo sulla cittadinanza per i quali la dimensione inclusiva diventa requisito cogente a prescindere dalla normativa».
Per ulteriori informazioni: comunicazione@cerpa.org.