Cosa vuol dire essere adulti? E come cambia la definizione di “adultità” se riferita a persone con disabilità? Sono interrogativi antichi che non consentono una risposta univoca, ma con i quali siamo chiamati a cimentarci e per farlo abbiamo chiesto aiuto a Marta Sousa, psicologa dello sviluppo e dell’educazione.
Cosa vuol dire essere adulti?
«È una domanda difficile perché può prevedere un’infinità di risposte. Per la psicologia, essere adulti è avere raggiunto il completo sviluppo fisiologico, psicologico e sessuale. Si può anche dire che essere adulti è essere capaci di autodeterminarsi, fare scelte consapevoli, assumersi delle responsabilità e acquisire determinate libertà. Un tempo, era più chiaro che diventare adulti significava essere maggiorenni, fare scelte legate al lavoro, costruirsi una famiglia. Attualmente la fase dell’adolescenza è molto dilatata, un po’ per la difficoltà a rendersi indipendenti economicamente dalla famiglia di origine, un po’ per problematiche di tipo sociale (allungamento delle scolarizzazione, incertezza verso il futuro, mantenimento di stili di vita con meno responsabilità). In ogni caso, si può dire che la maggiore età sancisca l’ingresso nell’età adulta».
Ma come cambia, se cambia, la definizione di “adultità”, se riferita a persone con disabilità?
«Quando parliamo di persone disabili, la definizione diventa ancora più difficile, nel senso che, se intendiamo per adulto una persona autonoma e responsabile delle sue scelte, la persona disabile, soprattutto nei casi di grave disabilità intellettiva, non lo diventerebbe mai. Ma, in ogni caso, bisognerebbe fare riferimento alle competenze che ogni individuo possiede, più che alla sua età anagrafica».
Nelle circostanze in cui la disabilità consente spazi di autodeterminazione, un comportamento corretto nei confronti della persona con disabilità scaturisce dal semplice riconoscimento di tale capacità. Ma come orientarsi, invece, quando la capacità di autodeterminazione è seriamente compromessa o assente?
«In questi casi bisognerebbe che ogni famiglia, insieme alle altre Istituzioni che si occupano della persona con disabilità, concorressero a fare sviluppare il massimo di competenza possibile, raggiungendo il massimo grado di autonomia possibile. Spesso, alla fine della scolarità, questi ragazzi hanno come unica prospettiva i centri diurni o i laboratori protetti, dato che la maggioranza non è in grado di potere svolgere un lavoro. È in questo momento che, spesso, i genitori si rendono pienamente consapevoli che la disabilità del figlio è “senza uscita”. Questo crea non pochi problemi alla capacità di tenuta emotiva dei genitori. Ritornano le preoccupazioni dei primi anni, quando tutta l’energia dei genitori era dedicata più alla gestione quotidiana che a progettare il futuro. La famiglia dovrebbe favorire un percorso tale da permettere alla persona con disabilità l’elaborazione di un suo proprio modo di separarsi dalle persone adulte della famiglia di origine, realizzandone il bisogno di indipendenza».
Nel caso di persone con disabilità intellettiva, si tende a definire la persona considerando solo (o in prevalenza) la sua presunta “età mentale”. Ritiene che ciò sia corretto?
«Penso non lo sia affatto. L’età mentale è un indice che va “letto”. Io preferisco parlare di competenze, di cose che la persona è, o non è, in grado di fare, di abilità che può imparare, di percorsi riabilitativi che la portano a realizzare il massimo del suo potenziale. Se rimaniamo attaccati all’“età mentale”, la tendenza è considerare la persona disabile come “un eterno bambino”, non contribuendo alla sua “crescita” attraverso azioni educative concrete e costringendola alla dipendenza, anche laddove ci sono i margini per una vita autonoma.
Avere una vita autonoma non significa fare tutto da soli, ma integrare le proprie competenze con quelle degli altri e saper chiedere aiuto. Implica un grado di maturazione affettiva e psicologica che permetta la costruzione della propria identità».
Nei casi di disabilità intellettiva grave, alcuni genitori tendono ad instaurare un rapporto di tipo simbiotico con la persona di cui si curano. Sotto un profilo psicologico, quali rischi può comportare questa scelta?
«In questi casi i genitori tendono a concepire la cura del figlio con disabilità come una “ragione di vita”, ostacolando ogni passo verso l’autonomia. In alcune situazioni assistiamo a veri e propri disturbi dell’attaccamento. L’attaccamento è il comportamento che motiva il bambino a cercare “sicurezza” nella vicinanza fisica con i genitori o con il caregiver [la persona che presta assistenza in modo continuativo e gratuito ad un congiunto con disabilità, N.d.R.], quando vive emozioni di paura o di dolore fisico e/o emotivo. Le risposte naturali di questo legame possono essere modificate davanti a una diagnosi di disabilità, in quanto crea nella mamma (che spesso si occupa del figlio con disabilità) vissuti depressivi o ansiosi che disorientano il figlio il quale ha difficoltà nel prevedere le risposte emozionali. Quando presente, questo disturbo peggiora i risultati della riabilitazione e amplifica i disturbi dell’adattamento.
Il distacco dalle figure parentali è spesso ostacolato dalle ansie proprie della persona disabile, e soprattutto dalle ansie dei familiari che, a causa del rapporto simbiotico, la rendono incapace di acquisire in autonomia strumenti di confronto con la realtà esterna alla famiglia. Anche la tendenza di molti genitori a risolvere i problemi al posto dei figli, sostituendoli, non crea le condizioni per “tagliare il cordone ombelicale” e rendere la persona capace di sviluppare le proprie capacità di risoluzione. Questa dipendenza forzata può portare a vissuti di aggressività, rabbia e depressione».
Prendersi cura di una persona con disabilità può anche essere fonte di senso e gratificazione per chi svolge tale attività. Ma questi sentimenti – che in sé sarebbero positivi – possono favorire lo sviluppo di un rapporto di dipendenza reciproca con la persona accudita. Quali accorgimenti potrebbero scongiurare un esito di questo tipo?
«Permettere alla persona con disabilità di frequentare ambienti esterni alla famiglia anche dopo la fine della scuola, iniziare, già dalla scuola, progetti di alternanza scuola-lavoro, laddove tale percorso è possibile, prevedere l’esistenza di più di un caregiver. Sarebbe importante, inoltre, pensare al progetto di una vita indipendente, non solo con l’arrivo della fine della scolarità, ma investendo tempo e risorse nel delineare una possibile traiettoria di indipendenza, già da molto prima, abbandonando un modello di accudimento protettivo. È sicuramente un processo lungo e pieno di insidie, che comporta una trasformazione del sistema famiglia. Bisogna aiutare i genitori a non considerare la separazione come un rifiuto, ma come un’opportunità per il figlio di acquisire i propri spazi e maturare una relativa autonomia».
Trovare un giusto equilibrio tra protezione e libertà nell’educazione dei figli è un problema che tutti i genitori devono affrontare nell’accompagnarli verso l’età adulta. Talvolta avere un figlio con disabilità induce i genitori a “far pendere la bilancia” dal lato della protezione. Quali considerazioni potrebbero indurli a cercare un maggiore equilibrio tra questi due aspetti?
«I genitori devono essere consapevoli che sostenere il processo di crescita dei propri figli implica sapersi mettere in disparte, quando il figlio può fare passi da solo. La dinamica evolutiva non si ferma, è sempre possibile fare qualche passo in più. Ai genitori tocca il compito di mediatori e facilitatori del processo di autonomia, nella consapevolezza che l’iperprotezione e l’iperdipendenza possono provocare un atteggiamento di passivizzazione che ostacola lo sviluppo e contribuisce a innescare un livello di autostima molto basso, limitando fortemente le possibilità di fare esperienze e di misurarsi non solo con gli altri, ma anche con se stessi. Invece, la capacità di immaginare le persone con disabilità come capaci di assumere un ruolo e un lavoro, di partecipare alla vita della collettività, di sentire di farne parte, porterà a sperimentare nuovi percorsi, trovando risorse nuove e insospettate».
Negli ultimi tempi si parla tanto del tema del “dopo di noi”, un’espressione che sottende come, in alcuni casi, l’emancipazione della persona con disabilità dalla famiglia di origine sia rimandata sino a quando i genitori (in genere sono loro a prestare assistenza) non saranno più in grado di prendersi cura del proprio congiunto. Cosa pensa di questa emancipazione posticipata sino agli estremi del rinviabile? E cosa si può fare per rendere il distacco meno doloroso possibile?
«Crescere i figli con il pensiero di renderli autonomi e anticipare il “dopo di noi” all’“ancora con noi”. Vedere i figli da adulti, anche quando ancora non lo sono. Il percorso verso l’autonomia deve iniziare sin dalle fasi di vita precedenti, dalla più giovane età della persona con disabilità. Sostenerla nella costruzione di una realistica immagine di sé, e nell’apprendimento graduale delle capacità necessarie per poter agire, il più possibile, da sola. Bisogna sostenere lo sviluppo dell’identità che è strettamente legato all’esperienza del riconoscimento, all’essere percepito e rispettato nella propria unicità. Il rispetto e il sostegno alla dignità della persona – in particolar modo della persona con disabilità – comporta in primo luogo il riconoscimento del suo sé e del suo bisogno di percepirsi capace di rispondere ad alcuni bisogni fondamentali. I genitori, insieme agli altri operatori che si prendono cura della persona disabile, dovrebbero fargli assumere la capacità di autodeterminazione e orientamento nelle proprie scelte di vita, ancor prima di cominciare a pensare al “dopo di noi”».