L’ho pagata con la febbre e qualche giorno di influenza, ma ne è valsa sicuramente la pena: una mezza giornata a sciare a Bardonecchia (Torino) mi ha ritemprato… lo spirito. Una volta all’anno non resisto alla tentazione di reindossare la tuta da sci, calarmi (sarebbe meglio dire incastrarmi) nell’ovetto con il monosci, mettere il casco e tornare a sciare.
Lo sci è stato uno sport che ho amato quando ero in piedi e che poi per lungo tempo non me la son sentita di praticare. Fatico infatti a conciliare quell’amore viscerale di allora quando “più era difficile la pista più era divertente”, con la necessità di reimparare di oggi, quando l’istruttore ti deve letteralmente tenere in equilibrio. Quest’anno l’ho fatto per testare la Scuola Nordovest di Bardonecchia, che da poco, grazie a Dario Cappelli, ex membro dell’Associazione Free White di Sestriere (Torino), ha iniziato a insegnare lo sci alle persone con disabilità.
Il suo metodo d’insegnamento, che definirei più “olistico” rispetto a quelli precedentemente testati (al Sestriere e a Salice d’Ulzio con Alex Zanardi), permette di imparare divertendosi: tecnica e momenti di puro sci si intersecano. Ho così ritrovato il piacere di scendere sulla pista, godendomi il contesto senza dover essere mentalmente concentrato sulla sequenza di movimenti da compiere.
Forse poco mi importa se ho fatto davvero qualche passo in avanti nell’apprendere, una o due volte all’anno sono poche per tornare a sciare, ma mi sono divertito. E ho strafatto, forse, tanto da meritarmi la febbre. O forse no.
Chi non ha a che fare con la disabilità spesso non sa quello che c’è dietro a semplici gesti. Una persona che va a sciare si copre per stare al caldo e di volta in volta valuta se scoprirsi o rivestirsi a seconda della temperatura. Io che non ho sensibilità dal petto in giù non ho questo metro di giudizio: non sentendo caldo o freddo, per esempio, come faccio a sapere se mi si stanno congelando le punte dei piedi?
L’istinto non basta, ci si copre e basta, anche a rischio di morire di caldo. Spogliarsi poi è impossibile, una volta che ci si incastra nell’ovetto da sci diventa impossibile arrivare ai piedi, e tanto meno tentare di aprire la tuta da sci per togliersi qualche capo d’abbigliamento in eccesso.
C’è poi la questione bagno: un bipede si ferma a un rifugio, toglie gli sci e fa la classica coda davanti al bagno. I non camminanti devono sperare che i rifugi siano dotati di una sedia a rotelle di cortesia (a Bardonecchia, grazie al lavoro dell’Associazione Viaggiare Disabili, il Rifugio I Birichini ne sta acquistando una e ha reso accessibile il bagno) e trovare qualche anima pia che ti aiuti ad uscire dall’ovetto che ti cinge la vita così bene da non lasciarti fuggire nemmeno se ti sollevano in tre persone.
Troppo semplicisticamente si pensa che la vera disabilità (motoria) sia solo il non camminare, ma spesso, dietro alla conseguenza più evidente, si nascondono tante complicazioni meno evidenti che rendono la disabilità stessa veramente indigesta. Il tuo corpo non ti appartiene, vi ricordate il film Quasi amici, quando l’assistente Driss distrattamente versa l’acqua bollente sulle gambe di Philippe? Beh, accade la stessa cosa a molti tetra e paraplegici (ma non solo a loro) che non sentono il loro corpo al di sotto della lesione. Così una bella giornata resta pur sempre una battaglia contro la propria condizione.