Non ci sono vincitori né vinti in questa storia d’autismo, c’è solo gente provata che non si arrende. Non ci sono i “buoni” e i “cattivi”, anche se c’è chi le prende e chi le dà. Non c’è nemmeno una storia eclatante, solo il quotidiano spicciolo di una famiglia con autismo, così come lo si vive in tante case, in tante città.
Voglio togliere l’acqua del mare, libro uscito alla fine del 2014, è una storia scritta da Piero Fabris dopo aver scelto di convivere con l’autismo del figlio della sua compagna. La sua vicenda personale lo ha spinto a conoscere più profondamente questa condizione dalle ricadute sociali gravissime. E lo ha fatto con l’esperienza, toccando con mano altri dolori, altre convivenze, sondando la profondità di un’inimmaginabile voglia di vivere che è l’essenza stessa della dignità di queste persone. Fabris ha raccolto queste storie e ne ha ricavata una ispirata a tutte e alla sua personale.
«Questo testo – spiega – è per me un atto dovuto. È condivisione di un’esperienza costruttiva. È servizio sociale: volevo dar voce a tanti genitori, un vero esercito invisibile». E più sommessamente aggiunge: «Quando ho scritto questo testo, di getto, circa otto anni fa, era un argomento che non interessava nessuno. Oggi se ne parla forse troppo e male».
Pittore, scrittore, poeta e autore teatrale, Fabris ha acceso uno spot su ogni protagonista del suo racconto, soprattutto sul padre e sulla madre. Attraverso i caratteri di tutti i suoi personaggi, ha reso bene la varietà dell’approccio all’autismo e i pregiudizi che spesso lo accompagnano.
Al cospetto di Dario, figlio di Rachele e Lucio, si presentano di volta in volta i “grandi adulti di riferimento” e il suo autismo diviene «l’inciampo» di ciascuno di loro: dei genitori, della nonna, degli zii; e di insegnanti, accompagnatori, coinquilini, dottori, assistenti sociali e giornalisti senza scrupoli.
La famiglia è già un assaggio di società, quella grande che urla fuori dai confini dei luoghi noti, “dis-abile”, incapace di mettersi in gioco, di farsi cogliere dal dubbio, rigida com’è nella sicurezza della propria ignoranza e della presunzione che ne consegue.
Voglio togliere l’acqua del mare è un libro che racconta la fatica indicibile di un’evoluzione. E che dice che la speranza non è una romantica tensione al futuro; piuttosto è frutto di un impegno vigoroso centellinato nel quotidiano e portato avanti con coraggio. È ciò che si trova dietro l’angolo quando una scelta folle, in un giorno di pioggia, ci obbliga a fermarci un attimo. È in quel momento che si svolta, permettendo allo “scandalo” di un figlio autistico di trasformarsi in potere.
L’aiuto è dove non ce l’aspettiamo e magari risponde a un nome e a un cognome. Ma non è mai risolutivo. È invece un punto d’appoggio su cui far leva per sollevare il peso delle nostre stesse paure. La soluzione, quella vera, ogni personaggio la troverà dentro di sé. Solo allora sarà capace di modificare l’ambiente attorno a quel figlio sperduto nel deserto d’attenzione e sorpreso dal dolore degli altri.
Emblematica è la Lettera a un normodotato che forma il trentaquattresimo e penultimo capitolo del libro, in cui la madre Rachele, recuperata la propria dimensione esistenziale, scrive per conto del figlio Dario e di tutti «quelli come lui» una lettera indirizzata al «carissimo compagno di strada», cioè a ciascuno di noi: «La tua normalità, il tuo mondo apparentemente chiaro si nasconde dietro un fracasso di parole che coprono e nascondono, col loro rumore, il vuoto umano nel quale difficilmente riesco a navigare, a trovare la mia autonomia quotidiana». È firmata: «Il tuo inciampo».
Fabris non giudica l’umanità che ha incontrato, nemmeno quella “cattiva”. Non concede indulgenze al padre di Dario, ma lo ascolta profondamente e umanamente lo comprende. È con lui che apre e chiude il libro. Ed è come se quel personaggio, sentendo la vicinanza del suo autore, si lasciasse andare a un finale migliore, che nega la separazione netta tra il bene e il male, tra i buoni e i cattivi. E crolla ogni ferrea certezza, crepata dal dubbio. Si insinua la speranza operosa. Vince la possibilità.