Si fa sempre un bel dire che l’educazione deve partire dai bambini. Che il senso civico si inizia ad apprendere da piccoli e che la scuola – più del militare di una volta – ci deve insegnare a stare in mezzo agli altri. Quasi per caso mi sono imbattuto in un progetto che mette insieme alcuni elementi come questi, cioè pedagogia, didattica e considerazione dell’altro. E ho sentito il dovere di saperne di più.
Trovo molto valido che qualcuno abbia pensato a uno strumento per bambini realmente inclusivo, ovvero che sfrutti il gioco per implementare le proprie facoltà mentali il più indifferentemente possibile dal vissuto del fruitore. Il progetto si chiama Play for Inclusion, e per ora ha dato vita a Kibu, un nascente gioco che non può non entrare a far parte della storia dell’inclusione del nostro Paese.
Il senso di quello che mi accingo ad approfondire è dato dalle parole di Francesca Postiglione, una delle ideatrici del progetto: «Vogliamo scardinare il concetto di disturbo e di deficit, puntando alla valorizzazione delle differenze. Il disturbo per noi non è altro che un modo alternativo di imparare».
Io penso che se la didattica, l’insegnamento a scuola come quello professionale sul luogo di lavoro, applicassero questa metodologia non solo il termine inclusione non avrebbe finalmente più ragione di esistere, ma avremmo costruito una società in grado di attingere alle risorse di tutti. E di svilupparle. La dottoressa Postiglione, con un semplice enunciato, dipinge un mondo perfetto. E ci mostra che si può iniziare a costruirlo.
Il progetto, in buona sostanza, si propone di mettere al completo servizio della società anni di studio e ricerche. L’obiettivo è quello di andare incontro alle esigenze dei bambini con Bisogni Educativi Speciali (BES), cioè bambini che presentano «una richiesta di speciale attenzione per una varietà di ragioni: svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture diverse…».
Volendo citare qualche numero fornito dal progetto, sulla base del convegno del 2011 La riabilitazione precoce nelle disabilità dello sviluppo: dalla ricerca traslazionale ai modelli di intervento, promosso dalla Fondazione Stella Maris e dall’Università di Pisa, sarebbero il 10% della popolazione i minori con problemi psichici, ritardo mentale, disturbi dell’apprendimento, dell’attenzione e problematiche minori.
Ma il progetto ideato da Francesca Postiglione, psicolinguista, con le colleghe psicologhe Caterina Bembich e Marilina Mastrogiuseppe su input dell’Associazione Diparipasso, punta a tutti i bambini perché, oltrepassando il concetto di riabilitazione per abbracciare quello di abilitazione, vuole permettere ad ogni bimbo di sviluppare al meglio le proprie potenzialità adattandosi al suo livello di sviluppo.
Play for Inclusion, quindi, è una piattaforma che intende mettere la ricerca scientifica al servizio dei bambini e il primo prodotto è appunto Kibu, un videogioco per smartphone e tablet pensato per bambini dai 5 agli 8 anni, volto a potenziare le funzioni cognitive dell’utente, calibrando la propria difficoltà sulle peculiarità del bambino. In parole povere, il bimbo, giocando, potenzia le sue capacità, avendo a disposizione un gioco che è pensato per andare incontro alle esigenze di ogni persona, intesa come essere unico e irripetibile.
Potenzialità degli algoritmi celate, racconta Postiglione, dietro la storia di due fratellini che vivono nel mondo dell’armonia delle case sull’albero in compagnia di tanti amici, fra cui il canguro Kibu che verrà rapito e che loro dovranno salvare. Una bella storia di amicizia. L’inclusione di questo bel progetto è palese persino nei contenuti.
Il videogioco non è ancora in commercio e lo entrerà se si troveranno i fondi per farne partire la produzione (in tal senso è stato anche avviato un crowdfunding, “raccolta fondi in web”). Ad ogni modo Kibu, che deve il suo nome ad un’accurata ricerca di sillabe facilmente accostabili e pronunciabili, è un’idea che non può non lasciare traccia nel percorso dello sviluppo dell’inclusione nel nostro Paese. Ed è un’idea troppo ben concepita perché la sua novità possa venire spazzata via da una mera mancanza di denaro.