Non è poi così male alzarsi alle 6 del mattino se sai di ripercorrere questa giornata da atleta. Il profumo di primavera rende meno amara qualsiasi alzataccia, così come il pensiero che questa volta non potrò giocare. Mi avvio verso Via Tuscolana, Roma, perché è lì che la squadra si ritrova per partire alla volta dell’Aquila, per le finali dello Special Basket [manifestazione promossa da Special Olympics Italia, componente nostrana del movimento internazionale dello sport praticato da persone con disabiltà intellettiva, N.d.R.].
Puntuale all’appuntamento, la mia emozione sale. Quando ero un giocatore professionista e soprattutto al termine della mia carriera, non ho mai assaporato fino in fondo l’amore per questo sport, forse per mancanza di un mèntore nel gioco perché, nella vita, di mèntori ne ho avuti, come i miei genitori, sempre presenti e che con me hanno lottato contro tutte le avversità con cui un giovane atleta deve misurarsi. Infine, la mia compagna che mi ha sempre invitato a lottare e a non mollare mai, anche in quei momenti che possiamo considerare “delle occhiatine” dove i secondi sembrano interminabili e dove la tua forza sta nel rimontare sempre in sella anche quando senti che non hai più le energie per rialzarti.
Così, oltre agli Atleti Special Olympics ci sono i loro genitori, che li accompagnano in questa giornata di festa. Non sarà un caso, ma l’evento dell’Aquila, oltre al talento espresso in campo, è dato dalla volontà e dal calore umano di queste mamme e di questi papà.
Il loro amore incondizionato verso un figlio che, tra mille difficoltà, cresce in una società che propende verso il relativo, verso il superficiale, verso il “vincere facile”, che non esprime quello che i miei occhi vedono e le mie orecchie ascoltano.
In campo non si gioca 5 contro 5, con gli atleti ci sono centinaia di persone, tra genitori, amici e conoscenti che li incitano e che li amano. Così mentre le nostre giornate sono scandite dalla normalità con cui la politica internazionale alza i muri dell’indifferenza verso l’integrazione, io divento il testimone di un evento sportivo dove le parole “gioco”, “divertimento” e “integrazione” sono al primo posto.
Non esiste l’indifferenza, non esiste il business, come non esistono doping, bullismo o tifo violento. Non ho visto genitori urlanti contro l’allenatore per qualche minuto in più o se il numero 15 avesse la palla attaccata alle mani o se il loro figliolo avesse giocato troppo poco per esaudire la loro preghiera di riscatto personale di un mondo alla deriva.
Ho visto altruismo e amore, dentro e fuori dal campo. Vi era agonismo, ma rispetto degli avversari e dell’arbitro. Vi era spirito di collaborazione e di iniziativa tra i genitori, pronti ad aiutare se c’era bisogno oppure a godersi la partita e quella bellissima giornata di sport.
Durante i miei primi anni di gioco da professionista, in visita ad una High School americana, lessi queste parole su una parete della palestra: «Non sarà il pallone, né gli avversari, non saranno gli infortuni, le sconfitte o un paio di scarpe bucate, non sarà chi ti conosce, chi dice di conoscerti o chi pretende di farlo, sarà la tua fame, la tua volontà, la tua voglia di superare ogni avversità che la vita ti propone». La stampa e gli addetti ai lavori, nel tempo, hanno privato i contenuti di questa citazione del loro principio ispiratore; quello di strumento in grado di veicolare valori che vanno oltre lo sport e che possono essere considerati come un’arma contro l’indifferenza, quella che ti trafigge come mille lame, quella fredda e insensibile che noi tutti conosciamo, ma che non abbiamo abbastanza volontà per combattere.
Ho deciso di citare queste parole perché lo sport ti può proporre questo se le tue intenzioni sono tali da propendere verso l’assoluto e non verso il relativo.
Molto spesso, io per primo sono oggetto nella quotidianità di frasi di scherno di persone che decidono di fermarsi al mio aspetto, alla mia altezza, alla superficialità del mio involucro. Nessuno che ti guarda nel cuore, troppo difficile l’assoluto, significherebbe accettare di conoscerti, di vivere, di amarti. Il gusto del relativo fa parte della nostra società, ma non dell’evento che ho vissuto all’Aquila. Lì genitori e atleti desiderano conoscerti, sapere chi sei veramente, perché loro non possono e non vogliono fermarsi al relativo, così come i loro genitori non possono fermarsi al volontariato sterile di chi decide di fare della carità perché deve e non perché lo vuole veramente. In quel sabato ho vissuto una giornata tipo, una di quelle “occhiatine” che la vita decide di proporti.
Solidarietà e sport si sono confuse in una commistione di emozioni dove io per primo sono rimasto coinvolto.
E alla fine è giunto il momento delle premiazioni, anche qui senza vincitori né vinti, ma con l’amore per la pallacanestro; niente rivalità, ma il profondo orgoglio di essere arrivati alla fine del proprio percorso sportivo, il punto di partenza dello sport, di quello che dovrebbe essere, di quello che noi sognatori per un giorno finalmente abbiamo vissuto.
Grazie di cuore Special Olympics Italia, grazie di cuore ragazzi, vi voglio bene.