Credo nella famiglia. Credo che sia una forza, un valore aggiunto. In sua presenza si affronta meglio la complicata realtà della disabilità, anche se esistono persone in grado di vivere una bella esistenza in piena solitudine. Ognuno di noi si confronta con una famiglia, che sia quella di origine, quella costituita dalla cerchia delle nostre amicizie o quella che vorremmo avere, che abbiamo o che non abbiamo.
Animato da questa convinzione, credo che in certi casi – e soprattutto quelli che vanno sotto il nome di disabilità complesse – la cornice che si crea attorno alla persona sino a diventarne parte integrante sia un elemento della società da sostenere, ecco perché tengo molto a queste mie riflessioni e a quelle cui darò spazio in chiusura.
A fine settembre, presso l’Università Milano Bicocca si è tenuto l’incontro intitolato Promuovere la qualità di vita di bambini e adolescenti con disabilità multipla e bisogni complessi di assistenza e cura: dalla teoria alla pratica, iniziativa molto articolata e destinata a riflettere su come migliorare la qualità della vita dei giovani che vivono una condizione di particolare disabilità.
La disabilità multipla consiste nella sommatoria di più disabilità, ossia nel concentrarsi sull’individuo di più deficit, che danno luogo a una molteplicità di fattori, alterando la condizione della persona e generando una disabilità non ascrivibile a un solo genere in senso stretto. Capita, quindi, di trovare persone con autismo che abbiano anche problemi di epilessia, oppure persone che a un disagio intellettivo ne associno uno motorio.
La disabilità complessa è quella che va anche sotto il nome di disabilità grave, cioè – al di fuori di quanto la normativa italiana esprime in maniera ingarbugliata – una situazione dove la condizione di salute della persona si confronta in maniera severa con un ambiente circostante non in grado di soddisfare le esigenze dell’individuo.
Per questo disabilità multipla e complessa vengono talvolta usate come sinonimi. Ciò che però mi preme mettere in luce in questo àmbito è come tali realtà possano essere superate solo attraverso un intervento multidisciplinare, anzi interdisciplinare, della società. In questo senso l’accurato evento di Milano è stato fondamentale ed era popolato di interventi in tale direzione.
Fra le tante voci intervenute, ho scelto di segnalare quella di Carlo Riva, direttore dell’Associazione milanese L’abilità, che promuove il diritto all’educazione e al gioco per una migliore qualità della vita del bambino con disabilità. Riva è anche responsabile di progetti innovativi e sperimentali per l’inclusione e la salute del bambino con disabilità e della sua famiglia.
Gli ho chiesto dunque di parlarmi di disabilità complessa e multipla in rapporto alla famiglia e lui mi ha gentilmente scritto quanto segue.
«La disabilità complessa pone la famiglia di fronte a un dolore e a una sofferenza che, oltre a rompere equilibri dei singoli e progettualità future, immobilizza pensieri e azioni nel qui e ora e quindi nel divenire. La “paralisi” di cui soffre ogni componente della famiglia non nasce tanto dalla domanda “perché è così grave”, quanto dall’impossibilità di trovare un pensiero costruttivo sul domani, sul riprogettare una vita di coppia, di famiglia, di qualità.
Dall’incontro con le famiglie, dalle loro parole ed emozioni, emerge un vocabolario intimo costruito sui termini rabbia, solitudine, risarcimento, giustizia, sollievo. Tali parole-vissuti sono linee guida per una politica socioeducativa che deve costruire servizi di accompagnamento e di aiuto da affiancarsi all’area prettamente sanitaria riabilitativa.
L’accoglienza, che è in primis ascolto attivo di un padre e di una madre di un bambino con disabilità multipla, riporta alla luce continuamente una ferita che si rimargina in un nuovo progetto di vita che risolve la rabbia, include nel territorio, sposta i pensieri non più sull’indennizzo, ma su una nuova condizione di vita, dove la giustizia vuol dire bene e l’altro ti può aiutare nel sollievo della quotidianità.
Famiglie alle quali a seconda del bisogno e della necessità, servono interventi mirati, dal percorso psicoeducativo di un parent training al gruppo di autoaiuto, dal case manager dedicato alla disabilità complessa al respite care, dall’assistenza domiciliare all’ascolto dei fratelli.
Il modello di family-centered care, nell’ambito della disabilità multipla, deve quindi essere continuamente rivisto (non nella sua importanza e filosofia, ma nella strutturazione del servizio), alla luce di una scuola e di un territorio, in una società liquida, che cambia lo sguardo degli altri, riforma politiche di welfare, rivede investimenti.
Occuparsi pertanto di famiglia e bambino con disabilità multipla vuol dire occuparsi di un nuovo mondo inclusivo, di sguardi buoni, di condivisione. Dove nasce una nuova cultura della disabilità».