«L’isola sembrava abbastanza vicina, e lievitava dai flutti come una pagnotta rocciosa», ancora pochi metri separano Nujeen Mustafa dalla salvezza, come si legge nel libro che ha scritto insieme alla giornalista Christina Lamb Lo straordinario viaggio di Nujeen, edito da HarperCollins.
Questa ragazza diciassettenne, di origine curda, ha affrontato con l’aiuto della sorella Nasrine un viaggio lunghissimo ed estenuante, oltre 6.000 chilometri, la distanza che intercorre tra la vita e la morte. Nujeen, infatti, è fuggita dalla Siria, in cui ha vissuto sino al 2014, dalle bombe, dalle armi chimiche, dall’odore di sangue che impregna le città e ha trovato un rifugio sicuro in Germania, dove tuttora vive con le sorelle e i nipotini. Un percorso reso ancora più difficoltoso dalla sua disabilità. Nujeen, infatti, non cammina a causa di una tetraspasticità: «L’interno delle mie braccia – scrive – era tutta un livido per il continuo sbattere contro la sedia a rotelle. Procedevamo a scossoni. Cercammo un bagno, ma si rivelò inadatto a me: non c’era nulla a cui potessi aggrapparmi».
La sua disabilità è stata un ostacolo e una discriminante anche durante la sua vita in Siria, quando abitava ad Aleppo, in un appartamento al quinto piano senza ascensore. Nujeen non frequentava la scuola, non aveva contatti con i coetanei, non conosceva la città in cui abitava, perché piena di barriere architettoniche. Dopo che ebbe imparato a leggere, il suo mondo furono i libri, la televisione e «sedere sul terrazzino. Da lì in mezzo alle piante, potevo guardare gli altri tetti, con il bucato che sventolava al sole, le parabole satellitari le cisterne dell’acqua e i minareti immersi in una magica luce verde». La guerra, nonostante le sue brutture, l’ha strappata da quell’isolamento e oggi Nujeen, un concentrato di positività e determinazione, può avere la vita che ha sempre sognato: «Mi sveglio la mattina, vado a scuola, faccio i compiti».
L’abbiamo intervistata e raccolto la sua testimonianza.
Nujeen, il tuo nome significa “vita nuova”, proprio come quella che ti si prospetta in Germania.
«Il mio quotidiano è cambiato radicalmente. Ma mi vedo più come un’adolescente rifugiata che non come un’adolescente tedesca. La sensazione di essere una straniera è dura da vincere. Ora devo lavorare sodo per integrarmi. Devo adattarmi alle regole, ma allo stesso tempo non voglio perdere la mia identità».
Cosa ti manca di più?
«Mi manca il suono dell’adhan, la chiamata alla preghiera che saliva sino al nostro balconcino e il salep, una specie di frullato a base di latte, addensato con radici di orchidea di montagna. Mi manca la mia infanzia. La mia camera ad Aleppo che era troppo calda in estate. Ma soprattutto mi mancano mio padre e mia madre [i genitori di Nujeen vivono in Turchia. Sono in attesa di ricongiungersi ai figli, N.d.R.], le nostre riunioni di famiglia, in cui stavamo alzati fino a tardi».
E cosa non ti manca?
«Non mi mancano le scale. Le strade piene di buche. I blackout e i bombardamenti. I momenti in cui ci nascondevamo in bagno e quella sensazione di paura continua. I missili, gli attacchi chimici, i massacri e i combattimenti».
Hai trovato un programma TV tedesco che ti appassioni come Il tempo della nostra vita? [Nujeen ha imparato l’inglese guardando le soap opera americane, N.d.R.]
«No, non ho più il controllo del telecomando, i miei nipoti hanno monopolizzato la TV. In passato, tuttavia, la TV è stata la mia scuola e la mia amica, un’ancora di salvezza, l’unica cosa in grado di farmi scordare i bombardamenti».
Quali sono i tuoi progetti futuri?
«Nel libro ho scritto che vorrei diventare un’astronauta perché “nello spazio puoi fluttuare, per cui le gambe non contano… non puoi piangere per via dell’assenza di gravità”. Ora se penso al mio futuro mi vedo come scrittrice a cui piacerebbe cambiare alcune vite attraverso i libri che scrive. Ci sarà, tuttavia, sempre una parte di me che è rimasta in Siria e che sentirà sempre quel desiderio di tornare indietro».
Uno dei momenti più difficili del tuo viaggio è stata la traversata in mare dalla Turchia alla Grecia, che alcuni chiamano rihlat al moot, la “rotta della morte”. Non sai nuotare e, come racconti, alcune barche prima della tua si erano rovesciate. Come hai cacciato dalla mente la paura di affogare, di morire tra le acque gelide?
«Grazie alla Fede. Il nostro destino è già scritto e dobbiamo accettare tutto ciò che Dio ha deciso per noi. Così ho sperato per il meglio e pregato. Inoltre ho sempre tentato di prendere il meglio da ogni esperienza: era la prima volta che vedevo il mare, ne sono rimasta da subito incantata: era di un azzurro sfavillante».
Nelle prime pagine del libro, scrivi che in Siria i curdi vengono chiamati ajanib ovvero “stranieri”, tanto che molti sono sprovvisti della carta d’identità e dei diritti di cittadinanza. Come mantieni la tua identità curda?
«Si parla curdo a casa. Siamo un popolo forte e dobbiamo combattere. Dobbiamo difendere la nostra esistenza da un nemico che ci circonda. Siamo qualcosa come trenta milioni, ma non abbiamo mai avuto un nostro Stato. Di fatto siamo la più grande tribù apolide nel mondo. C’è una novella curda che si intitola Mem e Zin ed è la storia di due giovani innamorati con un epilogo drammatico, una sorta di Romeo e Giulietta. Mem rappresenta il popolo e Zin lo stato curdo, separati da circostanze avverse. Un giorno anche noi avremo il nostro Kurdistan, il nostro Rojava».
«L’aspetto peggiore dell’essere disabili è l’impossibilità di rintanarsi e piangere da soli… perché non riesci ad andare da nessuna parte; dipendi sempre dagli altri». Sei riuscita a conquistarti i tuoi spazi di autonomia?
«Ognuno deve cercare il massimo dell’autonomia possibile. Io ci sto provando. Ho quasi 18 anni, quindi è il momento per me di iniziare un nuovo percorso che mi renda sempre più indipendente».
Provieni da una famiglia numerosa. Ti piacerebbe avere dei figli?
«Naturalmente mi piacerebbe. È una delle più grandi benedizioni che Dio può dare. Io adoro i bambini, anche se ogni tanto, come accade con i miei nipoti, possono essere fastidiosi. Immagino il legame unico che può esserci con un figlio».
Cosa significa essere donne in Siria?
«La condizione delle donne in Siria è migliore rispetto a quella in altri Paesi arabi, ma non è così buona come in Germania. Il mio problema in Siria è stata la disabilità, non il genere femminile. In Germania sono trattata come una persona che ha esigenze particolari. Non come una meno capace. Qui devi fare del tuo meglio. Faccio la mia parte, cerco di dare una buona impressione e di essere un buona ambasciatrice. Ecco perché ho scritto il libro, per far conoscere ciò che abbiamo vissuto, per mostrare le somiglianze e non le differenze».
Servizio pubblicato da “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Dalla Siria alla Germania in sedia a rotelle, i 6 mila chilometri della migrante Nujeen”). Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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