Ancora una volta la cronaca non ci risparmia notizie che ci gelano il sangue, come quella che nei giorni scorsi a Vespolate, in provincia di Novara, ha visto un padre uccidere il giovane figlio con autismo, cercando poi di togliersi la vita. E penso a una tragedia analoga, accaduta nei primi mesi di quest’anno a Verona, sempre frutto di una situazione in cui la disperazione ha il sopravvento.
Parliamo di famiglie che convivono con disabilità gravi, che richiedono molte energie, famiglie fatte di persone che con l’avanzare dell’età diventano sempre più fragili. La senilità, infatti, porta una vulnerabilità sempre maggiore nei genitori, che non hanno più le energie necessarie ad accudire il congiunto. Una sorta di “vita contro natura”, che condanna ad essere “genitori per sempre”.
In genere, quando i ragazzi crescono, diventando donne e uomini vigorosi, i genitori – biologicamente – sfumano le proprie responsabilità, assumendo il ruolo di nonni. Per qualcuno, però, essere mamma e papà diventa un ruolo logorante, soprattutto se protratto nel tempo, anche quando non si hanno più le stesse energie e forze giovanili e si avrebbe bisogno di maggiore aiuto e attenzione, oltreché, come detto, di minori responsabilità.
Non dovrebbe essere la paura a dominare la nostra vita e tanto meno il gravame di responsabilità a lungo termine, soprattutto se insostenibili. Per questo il progetto di vita non dovrebbe essere elaborato in emergenza, ma accompagnare l’esistenza delle persone con disabilità, costruendo “durante noi” una dimensione gratificante, per dare dignità e valore all’esistenza di tutti. E anche se la recente Legge sul “Dopo di Noi” parla di “progetto di vita”, troppo spesso, però, continuiamo a trovarci di fronte a offerte sull’emergenza, piuttosto che a proposte che abbiano coerenza e continuità.