Oltre centocinquanta tra ricercatori, finanziatori pubblici e privati e rappresentanti di enti regolatori, istituzioni di ricerca, comitati etici, editori e associazioni di pazienti hanno partecipato nei giorni scorsi alla Convention Nazionale GIMBE, per condividere le raccomandazioni della campagna internazionale The Lancet-REWARD, recentemente lanciata in Italia dalla Fondazione GIMBE, come avevamo riferito qualche mese fa.
Tale iniziativa (REWARD, lo ricordiamo, è l’acronimo di REduce research Waste And Reward Diligence) è finalizzata ad ottenere il massimo ritorno in termini di salute dalle risorse investite nella ricerca biomedica e in base ad essa erano stato formulate diciassette Raccomandazioni su cinque aree di potenziali sprechi: rilevanza delle priorità di ricerca; adeguatezza del disegno dello studio, dei metodi e delle analisi statistiche; efficienza dei processi di regolamentazione e gestione della ricerca; completa accessibilità ai dati; usabilità dei report della ricerca.
Come è emerso in apertura della Convention GIMBE, nel 2015, a fronte di un miliardo e mezzo di euro investiti dall’industria farmaceutica, i finanziamenti pubblici sono stati inferiori ai 500 milioni. «Numeri – ha dichiarato Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione GIMBE – che chiaramente dimostrano come l’agenda della ricerca sia inevitabilmente condizionata dalle priorità dell’industria farmaceutica, i cui obiettivi non sempre coincidono con quelli del Servizio Sanitario Nazionale. Di conseguenza, molte aree rilevanti per l’assistenza sanitaria, ma di scarso interesse per l’industria, rimangono “orfane” di evidenze scientifiche, anche perché le già scarse risorse pubbliche sono prevalentemente dedicate alla ricerca di base».
Dal canto suo, Giovanni Leonardi, direttore generale della Ricerca e dell’Innovazione in Sanità del Ministero della Salute, ha sottolineato che «le Regioni sostengono di non poter destinare risorse del Fondo Sanitario alla ricerca perché questa non è un LEA [Livello Essenziale di Assistenza, N.d.R.]: questo è formalmente vero, ma la ricerca è fondamentale perché fornisce le basi scientifiche per le decisioni cliniche e sanitarie. E tuttavia, se vogliamo ottenere maggiori finanziamenti della ricerca, è indispensabile migliorare la rendicontazione pubblica dei risultati e l’impatto sul Servizio Sanitario Nazionale».
Sulla stessa linea anche Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri: «Se la ricerca risponde a quesiti rilevanti per il Servizio Sanitario Nazionale – ha affermato – rappresenta la migliore spending review, perché fornisce le basi scientifiche per decidere su cosa tagliare; invece medici, pazienti e Servizio Sanitario Nazionale si trovano a decidere esclusivamente su evidenze provenienti da studi promossi dall’industria».
Da tre successive sessioni interattive sono poi emerse le numerose criticità che contribuiscono a generare l’inaccettabile paradosso italiano: nel 2015, cioè, il nostro Paese ha destinato 111 miliardi di euro alla Sanità Pubblica, riservandone meno di 500 milioni alla ricerca biomedica, producendo pertanto limitate evidenze a supporto dei Livelli Essenziali di Assistenza e contribuendo a rendere il Servizio Sanitario Nazionale, come si sottolinea da GIMBE, con stimolante immagine, «un acquirente disinformato».
«In un contesto nazionale caratterizzato da un modesto finanziamento pubblico – ha concluso Cartabellotta – prevalentemente destinato alla ricerca di base, è indispensabile una maggiore integrazione tra ricerca e sanità pubblica attraverso due azioni: da un lato destinare una “ragionevole percentuale” del Fondo Sanitario Nazionale alla ricerca comparativa indipendente sull’efficacia degli interventi sanitari (non solo farmaci!), al fine di produrre robuste evidenze per utilizzare al meglio il denaro pubblico; dall’altro lato, avviare un rigoroso monitoraggio dei progetti di ricerca finanziati, per valutare il loro impatto sul Servizio Sanitario Nazionale e sulla salute delle persone». (S.B.)
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