La tiflologia* è una scienza che – al pari delle “colleghe” il cui oggetto è più o meno misurabile – merita rispetto e serietà; e ciò non solo perché si occupa di tecnica, autonomia, didattica e informatica, ma per il fatto che la sua “essenza” rappresenta lo spirito umano nell’atto di accogliere, istruire e formare ogni mente, vicina all’apparenza, lontana dall’Essere…
In questi ultimi anni, più o meno velatamente, talvolta palesemente, l’argomento “continuità”, legato ai termini didattica ed educazione, ha fatto capolino non solo sui tavoli tecnici del Ministero dell’Istruzione, Ricerca e Università, ma anche su quelli del lavoro, dei sindacati e dei tribunali. Non parliamo poi delle diverse testate giornalistiche, dove si sono alternate teorie ora a favore ora contro la continuità didattica, scambiando spesso il primo termine (didattica) con il secondo (educazione), come fossero la stessa cosa!
Il desiderio di molti – difficile da ottenere e dunque da realizzarsi – in previsione di un’istituzione scolastica che sta evolvendo verso un’idea di “scuola aperta”, fa presupporre che la continuità possa essere garantita quando il docente per il sostegno resti assegnato a un alunno per un intero ciclo scolastico o addirittura lo accompagni per l’intero percorso di studi.
Quante perplessità attorno a un’idea così rassicurante! E se il docente è privo di quelle competenze, indispensabili per affiancare l’alunno non vedente? E come risolvere la continuità di fronte alla gravidanza o alla malattia?
Non è questo il luogo dove fare sfoggio di norme, sentenze, ordinanze o circolari ministeriali; citerò solo il grande Piaget e l’altrettanto lungimirante Dewey [Jean Piaget e John Dewey, N.d.R.],che diedero il fatidico “LA”, il via al lungo percorso storico della letteratura psico-pedagogica, dal nucleo educativo e didattico incentrato sul fanciullo, le sue tappe emotive, intellettive e fisico-motorie.
Poi, l’avvento dell’unificazione della scuola elementare con quella dei tre anni successivi – la scuola media – tramite la Legge 1859/62, con il tema che iniziò ad assumere i caratteri giuridici, tra cui quello dell’estensione dell’obbligo scolastico, coinvolgendo anche il tema della continuità didattica e ancora oggi nascondendo l’insidia tremenda dell’evidenza e del diritto, ma tralasciando di fatto – causa una forte miopia pedagogico/didattica prossima alla cecità – la centralità dell’alunno. Non la centralità fisica, quella già sin troppo presente, sia ai dotti che ai sapienti, ma la centralità cognitiva, intellettiva e delle abilità del nostro piccolo studente. Di lui e di quanto detto vorrei proporre la mia riflessione e questo perché non vorrei parlare di loro con loro, ma assieme a loro di noi tutti, docenti e studenti. E ancora, non mi soffermerò sul tema scottante del “diritto allo studio”, né esaminerò i temi concernenti il ruolo storico dell’istruzione: perché nacquero la scuola materna, elementare e media; troppo lungo e affascinante per ridurlo in poche righe…
Parliamo invece direttamente degli alunni che vivono la condizione fisico-sensoriale della cecità, assoluta, parziale e, talvolta, in presenza di minorazioni aggiuntive. Precisazione, questa, che non è poi così tanto peregrina, se teniamo in debito conto che la disabilità sensoriale – quale è la “cecità” nelle sue molte manifestazioni – è da intendersi, appunto, come una condizione fisico-sensoriale determinata certo da una qualche patologia, il più delle volte passata, che ha lasciato la persona priva della vista o per cui la vista non è mai stata esercitata, causa la patologia stessa.
Precisazione tanto importante quanto particolare, che consente di spazzare via equivoci circa il fatto che le disabilità sensoriali abbiano proprie specifiche manifestazioni le quali, per la persona che le vive sulla propria pelle, implicano una condizione specifica, non speciale, di minorazione sensoriale appunto.
Dunque, la cecità in sé non è la malattia, né è una condizione che possa danneggiare abilità, atrofizzare attitudini della persona o ledere aspetti caratteriali o ancora determinare “distorsioni” della personalità. La cecità, nelle sue diverse manifestazioni, non è una malattia invalidante, ma bensì la condizione sensoriale, ove la funzione dell’occhio – ovvero quella del vedere, che si esplica mediante l’atto visivo – è assente, rendendo quindi la persona cieca assoluta o parziale.
La cecità, pertanto, è la mancanza della vista, e per tale ragione, più che invalidare la conoscenza, rende invisibili i contenuti della stessa, quelli che debbono la loro esistenza, in parte, alla capacità dell’occhio di percepirli; per esempio: la luce del sole, qualora sia una persona cieca assoluta a trovarsi sotto il sole o di fronte a un tramonto; o ancora, l’arcobaleno e dunque tutti i fenomeni ottici e visivi, come il colore, il movimento, un graffito o un’opera pittorica. Lo stesso pentagramma, con le sue note posizionate qua e là, sino all’invenzione del Codice Braille, per i ciechi era assolutamente invisibile, dunque non conoscibile e tanto meno avente un significato o utilità.
Potrei dilungarmi in altri esempi, ma poiché è di prossima pubblicazione un mio secondo testo di tiflologia (Noi… quelli dell’inclusione), se il Lettore lo vorrà, potrà trovare nelle pagine di esso l’argomento ampiamente trattato.
La ragione di questa breve riflessione, qui, all’inizio del presente articolo, ha la funzione educativa di informare sulle reali abilità del fanciullo studente cieco, evitando inutili “secche” di tipo didattico o educativo, che lo vedono sì al centro della famigerata “inclusione”, ma non come persona abile, piuttosto come “diversamente abile” o peggio “disabile!”.
Intanto chiariamo che la continuità didattica ed educativa non sono la stessa cosa e che però entrambe concorrono alla costruzione della personalità, della formazione e della cultura del discente. Che l’educazione e la didattica, per i diversi periodi storici, hanno significato aspetti dell’istruzione e della formazione afferenti il contesto sociale, economico del nostro Paese, intersecando temi politici, religiosi, familiari e culturali.
Qui la didattica e l’educazione – ancorché afferenti gli alunni non vedenti – concernono il dibattito, piuttosto torbido, sul tema: assistenza o abilità dei nostri alunni non vedenti frequentanti la scuola dell’obbligo. E dunque procediamo.
La didattica concerne le metodologie di insegnamento dei contenuti disciplinari; diremo l’approccio metodologico, il sistema mediante cui il docente disciplinare trasmette i saperi all’alunno. Per esempio: il saper scrivere e leggere ci deriva dall’impronta didattica del pedagogo; più egli sa trasmettere ciò che sa e più l’allievo apprende in modo appropriato e impara ad utilizzare i contenuti con consapevolezza e abilità.
Oggi la scuola impartisce i contenuti disciplinari non solo attraverso la didattica legata alla conoscenza disciplinare, ma anche attraverso quella delle competenze. In altre parole, non solo so chi è Napoleone, ma ne riconosco e interpreto i caratteri in contesti differenti ed epoche successive e precedenti; così, se in una lettura dovessi incontrare la locuzione “cesarismo napoleonico”, immediatamente ne ricaverò i caratteri, così come nelle cause e negli effetti di un qualunque evento e situazione, idea o figura storica.
La scuola di oggi, dunque, già lavora per la continuità didattica, proprio perché applica generalmente, in modo piuttosto diffuso, la didattica per competenze, privilegiandola a rispetto a quella per conoscenze.
Vi chiederete – e mi chiedo – i docenti sono competenti in ciò? Chi certifica tale capacità professionale? Poiché questa è materia molto interessante, ma appartiene a un’altra storia, se ne potrà parlare in diversa sede.
L’educazione. Essa concerne il comportamento, l’apprendimento di un codice sociale, l’assunzione di regole di gruppo, l’autonomia personale, la postura e il sapersi relazionare con l’altro, con gli altri. Il docente è – prima che un didatta disciplinare – il pedagogo, il “maestro in campo”, ove lo spazio e il tempo hanno il medesimo sguardo che all’orizzonte si incontra con quello oggettivo dei tanti occhietti, nasini e orecchiette tutti lì… I bimbi e le bimbe che, col respiro della tenera età, attendono inconsapevolmente l’iniziazione al sapere.
Certo, lo scenario cambia da scuola a scuola, da livello a livello, da ordine a ordine, ma quel che sempre abbiamo trovato da studenti, poi da genitori e da educatori, è l’entusiasmo, la meraviglia, la curiosità di cui l’animo umano è portatore privilegiato per natura…
La ragione, il pensiero in solitudine abitano da “sovrani silenziosi” gli spazi naturali del corpo umano. La parola, che si manifesta al mondo mediante la voce, li rende conoscibili, li rende forme e oggetti per tutte le bimbe e i bimbi del pianeta Terra.
Chi è il pedagogo, quello autentico, quello che nel cuore di chi ha vissuto la scuola dell’apertura e non del rigore, abbiamo potuto incontrare tra un docente di italiano e uno di matematica, tra quel prof di scienze e quello di storia, tra la prof di musica e quello di applicazioni tecniche? Il vero pedagogo riassume in sé i caratteri del “didatta” e quelli dell’“educatore”.
E così, la continuità educativa e didattica sono forse elementi di una base formativa, caratterizzata da una propria oggettività? Se la didattica e l’educazione sono lo sviluppo di un processo concettuale, inteso a guisa di uno “stile”, la risposta è no! No, perché lo stile o lo si imita o lo si ha; se lo si ha, allora è impossibile che l’imitazione possa avere la stessa ricaduta, come se fosse l’originale; qualora sia originale, resta e sarà sempre unico.
E dunque? Dunque la risposta è: sia la didattica che l’educazione, in un qualunque percorso di istruzione scolastica, sono patrimonio di quella scienza che, pure nell’ottica del suo sviluppo storico e sociale, afferisce alla radice originaria da cui ha avuto inizio la civiltà contemporanea: il progresso inteso quale pensiero autonomo, capace di governare la natura, nel senso di comprenderne i fenomeni e non di subirli; di poterne trarre beneficio da essa e non solo male.
Sia la didattica che l’educazione hanno il valore di scienze, nel significato più coerente e storico/evolutivo del loro divenire e per questo non possono essere ridotte a semplici stili.
Dunque l’educatore è “anche” il professionista della “continuità” didattica ed educativa? Se ciò è vero, allora ogni educatore che nella scuola abbia il ruolo di docente ha in sé i semi di quel principio educativo che al centro ha le attitudini e le abilità del discente e dunque al primo posto c’è il valore imprescindibile della didattica, per un apprendimento il cui esito sia un alunno che abbia imparato ad imparare, un alunno che sappia sapere per saper essere, sapere per saper fare.
La capacità nostra – cioè di noi operatori della scuola che ogni giorno dobbiamo inventare le strategie per tenere l’alunno in aula, non fisicamente, ma col pensiero – sarà quella di proporre il binomio didattica-educazione ed educazione-didattica, ogni giorno diverso, mai uguale e sempre e comunque in funzione, non solo basandoci sui contenuti disciplinari, ma, e soprattutto, sui contenuti aderenti alle potenzialità e attitudini dell’alunno cieco o ipovedente grave; questo potrebbe significare continuità, nella didattica e nell’educazione.
L’argomento è certo aperto, e questo mio è un minuscolo granello di terra che probabilmente non toglie né aggiunge nulla di migliore al vasto e già complesso panorama di argomentazioni sul tema. Eppure…
*La tiflologia è la scienza che studia le condizioni e le problematiche delle persone con disabilità visiva, al fine di indicare soluzioni per attuare la loro piena inclusione sociale e culturale.