I permessi lavorativi e le esigenze di chi presta assistenza

di Simona Lancioni*
Secondo una recente Sentenza della Corte di Cassazione, i permessi retribuiti riconosciuti al lavoratore dalla Legge 104/92, per prestare assistenza a un congiunto con handicap in stato di gravità, possono essere utilizzati anche per consentire al lavoratore di provvedere alle proprie esigenze personali, purché l’assistenza al proprio congiunto sia comunque garantita in modo adeguato e benché tali permessi non possano considerarsi alla stregua di veri e propri periodi di ferie

Uomo spinge carrozzina in cui siede donna con disabilità«Posso andare alla posta, o in un altro ufficio, negli orari di permesso, senza che ciò venga considerato un abuso?». Il permesso al quale si riferisce il quesito che ci è stato rivolto è quello retribuito, riconosciuto al lavoratore dall’articolo 33 della Legge 104/92, per prestare assistenza a un congiunto con handicap in stato di gravità.
Non è la prima volta che i fruitori di questi permessi si fanno degli scrupoli circa il corretto impiego del tempo per l’assistenza e le risposte sono sempre state di buonsenso: se l’attività è svolta in un quadro complessivo finalizzato a garantire alla persona con disabilità l’assistenza necessaria, anche il disbrigo di pratiche amministrative, o fare la spesa, o lo svolgimento di attività complementari all’assistenza vera e propria (come, ad esempio, portare gli indumenti dalla sarta per farli sistemare, o recarsi all’Azienda USL per prenotare una visita o ritirare un referto), sono compiti che possono correttamente essere svolti durante le ore o nei giorni di permesso.
Ora, una recente Sentenza della Corte di Cassazione (Seconda Sezione Penale, Sentenza 54712/16) ha espresso il proprio parere sull’interpretazione delle disposizioni in materia di permessi lavorativi per l’assistenza a un congiunto con handicap in stato di gravità, arrivando sino a contemplare anche, entro certi limiti, il soddisfacimento delle esigenze del lavoratore.

Secondo la Suprema Corte, dunque, l’interesse primario espresso nella norma che istituisce i suddetti permessi lavorativi è quello di «assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell’assistenza del disabile» realizzate in ambito familiare. La Corte osserva che questa prospettiva consente che i permessi lavorativi siano «soggetti ad una duplice lettura: a) vengono concessi per consentire al lavoratore per prestare la propria assistenza con maggiore “continuità”; b) vengono concessi per consentire al lavoratore, che con abnegazione dedica tutto il suo tempo al familiare handicappato, di ritagliarsi un breve spazio per provvedere ai propri bisogni ed esigenze personali».
Ma poiché una lettura non esclude l’altra, ed essendo certo «che da nessuna parte della legge, si evince che, nei casi di permesso, l’attività di assistenza deve essere prestata proprio nelle ore in cui il lavoratore avrebbe dovuto svolgere la propria attività lavorativa», è possibile concludere che è sufficiente che l’assistenza «sia prestata con modalità costanti e con quella flessibilità dovuta anche alle esigenze del lavoratore».
Pertanto se – sempre secondo la Cassazione – «i permessi servono a chi svolge quel gravoso [compito] di assistenza a persona [i.e. persone] handicappate, di poter svolgere un minimo di vita sociale, e cioè praticare quelle attività che non sono possibili quando l’intera giornata è dedicata prima al lavoro e, poi, all’assistenza», è tuttavia altrettanto ovvio che l’assistenza deve esserci, e che pertanto i permessi non possono essere considerati come dei veri e propri periodi di ferie dei quali il lavoratore potrebbe disporre discrezionalmente. Non è dunque ammissibile che – come nel caso specifico da cui è scaturita la Sentenza – il lavoratore utilizzi i permessi per recarsi all’estero, poiché tale attività non è compatibile con lo svolgimento di alcuna attività assistenziale. Un conto, cioè, è organizzarsi il lavoro di assistenza in modo da renderlo meno gravoso e compatibile anche con le esigenze del lavoratore, altra questione è invece assentarsi e non svolgere alcuna assistenza.

In conclusione,  e in sintesi, ciò che viene espresso in questa Sentenza della Corte di Cassazione è che l’attività di assistenza non deve essere concepita come un qualcosa di totalizzante, ma come un lavoro dotato di una flessibilità tale da soddisfare contemporaneamente sia le esigenze della persona disabile (che rimane in ogni caso la beneficiaria della misura in questione), sia quelle del lavoratore che assiste (o, almeno, alcune di esse).

La presente nota è già apparsa nel sito di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli, Peccioli (Pisa), di cui Simona Lancioni è responsabile, con il titolo “I permessi lavorativi possono includere anche le esigenze di chi presta assistenza”. Viene qui ripresa con alcuni riadattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.

Per approfondire il tema trattato:
° Luca Benci,
I tre giorni di permesso per assistere persone disabili non sono equiparabili alle ferie. Ma in ogni caso servono anche per far “riposare” chi ne usufruisce. La sentenza della Cassazione, in «Quotidianosanità.it», 4 gennaio 2017.
° Simona Lancioni, Vietato il trasferimento del lavoratore che assiste un familiare con handicap non grave, in «Informare un’h», 15 dicembre 2016.
° Simona Lancioni, Permessi per l’assistenza riconosciuti al convivente, in «Informare un’h», 10 ottobre 2016.

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