Come un contagio a fin di bene

«Facciamo cadere le barriere, quando iniziamo a conoscere – scrive Simone Fanti, prendendo spunto dal libro “Viaggiatori inattesi” di Carlo Lepri e dall’omonimo convegno di Milano -, in un meccanismo ad effetto domino. Una persona con disabilità entra in ufficio e inizia a dare il proprio contributo, a farsi conoscere, portando con sé un seme di inclusione. Proprio come in un viaggio: la persona che siede accanto a noi può essere un molesto e chiassoso maleducato o rivelarsi come un incontro inatteso che arricchisce la giornata e il viaggio stesso. Come un “contagio a fin di bene”»

Realizzazione grafica americana dedicata all'inclusione delle persone con disabilità

Realizzazione grafica americana dedicata all’inclusione delle persone con disabilità

«Nessuno diventa umano da solo, ci facciamo umani gli uni con gli altri. Riceviamo l’umanità che è in noi per contagio: è una malattia che non avremmo mai incontrato se non fosse stato per la vicinanza con i nostri simili»: ho letto questa frase attribuita al filosofo Fernando Savater, nel libro Viaggiatori inattesi. Appunti sull’integrazione sociale delle persone disabili di Carlo Lepri (Milano, FrancoAngeli, prima edizione 2011, terza ristampa 2015), volume che dà anche il titolo a un convegno svoltosi in questi giorni alla Sala Bomprezzi della Casa dei Diritti di Milano [se ne legga la presentazione nel nostro giornale, N.d.R.].
Forse a farmi innamorare di quella frase è stato solo il termine contagio. Quel contagio a cui penso in senso negativo, quando esprimo la paura dei cosiddetti “normali” verso i disabili (e che nel tempo ho imparato a far rientrare nel semplice imbarazzo, nel non sapere cosa fare).
Quel contagio che ha il sapore di un virus che aggredisce, ma che può espandersi a macchia d’olio anche a fin di bene.

Viviamo nel mondo delle relazioni, e i social network sono solo il prodotto più evidente di questa necessità di “comunicarsi” al mondo. Quell’intima esigenza di gridare a tutti «io esisto», di socializzare, di raccontarci, che rivela troppo spesso l’incapacità di ascoltare gli altri. Una comunicazione monodirezionale in cui l’IO sovrasta ogni cosa. Incapaci di capire il tu, l’altro diverso da noi. Erigiamo muri fisici, ma soprattutto mentali. Nasce lo “straniero della mente”, che «sollecita la produzione di sentimenti – cito dal libro di Lepri – di inquietudini e di “non familiarità”». L’estraneo.

Lo psicologo Romano Madera ha coniato la definizione «lo straniero della mente», associando la condizione «di disabilità ad altre ombre come quelle degli stranieri di altre culture lontane da noi, le ombre di un’infanzia che non possiamo più concedere che esista». Ed è ancora più straniero chi più si allontana dal nostro modo di interpretare la realtà. Lontani come possono essere le persone con difficoltà intellettive e relazionali.
Le persone con autismo, ad esempio che tentano il loro ingresso nel mondo del lavoro, come racconta Fabrizia Rondelli, genitore in primis e rappresentante dell’Associazione L’Ortica di Milano: «La domanda intima che si fa una persona che non conosce l’autismo può essere riassunta in “Che idea posso farmi di te?”. Spesso le persone con autismo cadono vittime di pregiudizi. Come posso pensare che questa persona sia in grado di fare qualcosa? Noi viviamo nella relazione, nello scambio. Quando questo non c’è, non siamo in grado di capire chi abbiamo di fronte. Pensiamo che se non sa parlare forse non è in grado di capire. Pensiamo che se parla strano è un tipo bizzarro e quindi alziamo barriere»…
…Per farle però cadere quando iniziamo a conoscere. In un meccanismo ad effetto domino. Una persona con disabilità entra in ufficio e inizia a dare il suo contributo, a farsi conoscere, portando con sé un seme di inclusione. Proprio come può accadere durante un viaggio. La persona che siede accanto a noi può essere un molesto e chiassoso maleducato o una persona delicata e affine, un incontro inatteso che può arricchire la giornata e il viaggio.

Purtroppo, però, come ricorda Claudio Messori, direttore dell’Agenzia per il Lavoro dell’ANMIL (Associazione Nazionale fra Lavoratori Mutilati e Invalidi del Lavoro), ciò fatica ad essere realizzato proprio perché manca l’occasione per attivare questo processo: «Le persone con disabilità in Italia sono più di 3 milioni, ma soltanto il 19% di loro è occupato. La Legge 68/99 è all’avanguardia nel contesto europeo, ma rischia di escludere dal processo di ricollocamento proprio le persone che vivono in una condizione di maggiore esclusione sociale. La realtà, infatti, dimostra che esiste una categoria di “deboli”, per i quali l’inserimento lavorativo è particolarmente complesso. Le persone con disabilità psichica, ad esempio, vengono di fatto escluse poiché la Legge prevede che possano essere assunte solo su richiesta nominativa: la loro assunzione, pertanto, avviene a seguito di un atto discrezionale dell’azienda».

Riflessioni già apparse in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Viaggiatori inattesi nel lavoro e nella vita”). Vengono qui riprese, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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