Vorrei affrontare un argomento che in ogni istituzione scolastica – e soprattutto a livello della scuola secondaria di secondo grado – è particolarmente spinoso: la formazione dei genitori. Perché evidenzio il fatto della “formazione” in senso lato e del corrispettivo accompagnamento dei genitori degli alunni iscritti alle superiori? Semplice: è in questo ordine e grado di scuola che si gioca la partita del percorso didattico-disciplinare differenziato o equipollente, per cui vi possono essere posizioni estreme fra le due agenzie educative, famiglia e scuola.
Come dicevo in premessa, la famiglia, genitori in primis, non solo va formata, ma va anche accompagnata, supportata, in altri termini aiutata innanzitutto a capire, a orientarsi a rielaborare un lutto…; va ascoltato il suo percorso di sofferenza, al fine di porre in essere un progetto di vita fattibile e attuabile nel concreto, nei vari ambienti ove il loro figliolo-figliola si trova quotidianamente. Se tale azione di supporto alla famiglia avente sia caratteristiche di orientamento-esistenziale sia componenti psico-pedagogiche non si concretizza, ovvero se non viene realizzata anche una formazione in senso lato dei genitori, il livello di conflittualità fra scuola e famiglia aumenterà.
Più frequentemente negli ultimi anni leggo indirettamente, come formatore, e assisto, come docente specializzato, a uno scollamento fra scuola e famiglia. Quest’ultima, piuttosto che pianificare insieme al territorio e agli operatori della scuola un PEI [Piano Educativo Individualizzato, N.d.R.] al servizio del progetto di vita del ragazzo/a, preferisce sempre più spesso rivendicare – specialmente alle scuole superiori – la possibilità di accedere al titolo di studio.
Ma una volta acquisito il tanto desiderato pezzo di carta – alias diploma di maturità, che talvolta è l’unico vero obiettivo della famiglia – che succede se non sono state acquisite le competenze per la vita in termini di autonomia personale e sociale? Trovato il lavoro, riuscirà a preservarlo? Perché in età scolare troppo spesso oggi i genitori considerano solo l’aspetto dell’essere studente? Perché “dimenticano” che il loro figlio/a è innanzitutto una persona che pur essendo depositario/a di “BES” (Bisogni Educativi Speciali), al pari di ogni altro giovane studente, ha bisogno di vivere una vita caratterizzata da socializzazione e relazioni significative? Perché passa sullo sfondo che attraverso la comunicazione e il confronto possono essere co-costruiti percorsi formativi densi di senso esistenziale a prescindere dal percorso differenziato?
Talvolta vivo situazioni in cui i genitori considerano le mere lezioni didattico-disciplinari come le uniche utili per sostenere il percorso di crescita del ragazzo/a. Invece, a mio avviso, la scuola superiore è il trampolino di lancio su cui ogni studente, protagonista del proprio percorso di formazione a 360 gradi, deve essere accompagnato affinché possa fare il suo tuffo nella società. E per accompagnare il nostro studente con disabilità su questo “trampolino”, penso proprio sia necessario porre in essere un itinerario formativo caratterizzato da una visione olistica e da una costante e continua azione sistemica. In altri termini, l’azione di formazione per ogni nostro giovane studente è opportuno che sia volta a confezionare quel “bagaglio di competenze” atto ad accompagnarlo nella sua vita di cittadino.
Ma torniamo alla mia sollecitazione connessa alla formazione dei genitori. Ho letto e sentito, specialmente in questi ultimi tempi, tanto parlare di formazione dei docenti. Anch’io sono propenso al fatto che si riformi il modo in cui si attua il sostegno didattico nelle aule di scuola, ma non ho né sentito né letto dell’esigenza di formazione dei familiari degli studenti con Bisogni Educativi Speciali. Perche? Non esiste questa esigenza specifica? Nelle scuole superiori questo è un aspetto molto sentito, che si palesa in tutta la sua forza allorquando insegnanti e genitori si occupano, insieme, della tipologia di percorso formativo: equipollente o differenziato.
Se è vero, come è vero, che l’Amministrazione Scolastica “non vuole problemi”, che i sanitari dispensano – quando ne sono depositari – il loro sapere conoscitivo, che gli Enti Locali non hanno soldi, che le Associazioni fanno quel che possono (anche molto) e che le famiglie “vogliono” il titolo di studio, chi aiuta i docenti a co-costruire il PEI in funzione del progetto di vita? Chi può contribuire a formare tutte le risorse umane – genitori in primis – al servizio dell’inclusione sociale? Chi sostiene le famiglie in quel lento e progressivo percorso attraverso il quale vengono portate ad acquisire/interiorizzare il messaggio che gli apprendimenti formali sono importanti, ma che forse soprattutto gli apprendimenti non formali e informali aiutano a vivere meglio nei contesti naturali di vita? Questo aspetto della formazione in rete, di tutti coloro che si dovrebbero occupare istituzionalmente della concretizzazione del progetto di vita, è decisamente carente.
Facile pensare che sul’anello debole della catena (docente di sostegno che lavora alle superiori in modo particolare), si possano scaricare tensioni e aspettative quanto meno a dir poco elevate. La vexata quaestio è rappresentata da due aspetti: da un lato l’insegnante di sostegno concorre a effettuare una valutazione delle potenzialità dello studente con disabilità, sia per quanto attiene gli apprendimenti, sia per quanto concerne la socializzazione, la comunicazione e la relazione, ovvero concorre a stilare quel profilo di funzionamento che talvolta restituisce un’immagine reale del figlio/a e che taluni genitori non desiderano registrare; dall’altro i genitori auspicano che l’insegnante di sostegno “tuttologo” possa sostenere e garantire il successo scolastico al loro figlio/a. È così che si vuole che io, insegnante specializzato per scelta, debba espletare la mia funzione di figura di sistema? Lasciando me e i colleghi curricolari a fronteggiare quei genitori che rivendicano il titolo di studio e che pretendono che io possa mediare qualsivoglia contenuto disciplinare?
Penso sia ora di sostenere le buone prassi di integrazione scolastica anche attraverso un’azione di supporto agli operatori scolastici. Penso altresì che quanto debba essere realizzato sul “campo” della didattica vada supportato all’esterno da un’equilibrata azione di counseling per le famiglie, senza che ognuno abbia a trincerarsi nel “suo” orticello nosografico o normativo-procedurale, ma che ognuno abbia ad esporsi in termini organizzativi. In altre parole, auspico che con la fattiva collaborazione di tutti, innanzitutto operatori-professionisti del mondo della sanità, si eviti di lasciare noi insegnanti soli a sostenere il “peso” dell’intero processo volto alla realizzazione dell’inclusione.
Tenuto conto che l’inclusione dovrebbe essere frutto di un processo dinamico, è indispensabile che nella realtà lavorativa e territoriale i docenti possano mettersi intorno al tavolo, insieme agli altri operatori e alla famiglia, e dividere insieme a loro le responsabilità. I “carichi” vanno equamente distribuiti a livello interistituzionale, cercando al contempo di operare in modo integrato (e invece pare che gli unici a esporsi debbano essere i docenti che a rischio di burnout [esito patologico di un processo stressogeno che interessa, in varia misura, diversi operatori e professionisti impegnati quotidianamente e ripetutamente in attività che implicano le relazioni interpersonali, N.d.R.], non solo non vengono supportati, ma si pretende… E qui mi permetto anche di ricordare che ogni istanza sociale si scarica sulla scuola: dall’uso della nuova tecnologia in aula – senza avere la LIM (Lavagna Interattiva Multimediuale) – al cyberbullismo, dall’educazione all’affettività alle dipendenze…).
Sottolineo con forza che la nostra professione di “aiuto” ha bisogno di una valida rete al fine di espletare al meglio la funzione docente. In caso contrario continueremo ad assistere alla fuga dei docenti di sostegno verso le materie da insegnare, ove vi è un ruolo chiaro e definito, ove vi è un riconoscimento e il tutto è codificato nella prassi didattico-disciplinare (quante volte gli adolescenti-discenti mi hanno detto: «Ma lei che materia insegna?»).
E qui si apre uno spinoso nodo sulla funzione stessa dell’insegnante di sostegno: figura di sistema, insegnante tuttologo, docente di… ripetizione o esperto metodologo che coadiuva i colleghi curricolare nella loro azione didattico-disciplinare? È al contempo colui che espleta una funzione di mediazione e facilitazione degli apprendimenti? È il docente che concorre a costruire il necessario ponte fra lo studente con disabilità e i contenuti da acquisire attraverso le discipline? E soprattutto, quante volte ho assistito allo sgomento dei genitori degli studenti con disabilità, allorquando come insegnante di sostegno stilavo, in base alle mie osservazioni, un profilo di funzionamento registrato in aula, in laboratorio… «Ma come, non dobbiamo collaborare con gli esperti della sanità per costruire il Profilo Dinamico Funzionale?»…
La mia realtà di docente di sostegno mi ha insegnato costantemente che dopo un breve inquadramento diagnostico-nosografico e una stringata Diagnosi Funzionale stilata dagli specialisti, sono i docenti che restituiscono il reale funzionamento cognitivo e ivi iniziano le “rivendicazioni” dei familiari i quali – non supportati da alcuno – l’unica cosa che possono “naturalmente” fare è chiedere un PEI Equipolllente. L’integrazione scolastica, in alcuni casi alle superiori, si riduce a questo, ma occorre, e questo è il mio messaggio di speranza, che tutte le parti in causa si formino.
Prima di sedersi intorno a un tavolo di lavoro, anche in funzione della condivisione e successiva sottoscrizione del PEI, ritengo dunque necessario che ciascuno abbia avuto dapprima una formazione e poi con responsabilità – al “tavolo della concertazione”- si possa co-costruire un percorso percorribile con e per coloro a cui giova il tutto: la nostra persona con disabilità con cui interagiamo quotidianamente.