Il 7 aprile scorso il Governo ha approvato in via definitiva le otto Deleghe alla Legge 107/15 (cosiddetta La Buona Scuola), accogliendo in buona parte, per quanto riguarda l’inclusione, gli emendamenti proposti dalle Associazioni. E tuttavia, come sempre, l’approvazione di una norma non rappresenta solo un punto di arrivo, ma un nuovo punto di partenza.
In questi ultimi mesi, nel dibattito “a tutto tondo” che si è sviluppato sull’inclusione scolastica, ho avuto modo di sottolineare più volte, anche su queste pagine, che a garantire una reale inclusione delle persone con disabilità – scolastica prima, sociale poi – dovrebbe essere il livello di inclusività del “contesto”. E anche altri hanno avuto modo di ricordare come, per far sì che l’inclusione si realizzi, occorre che la scuola e il contesto sociale cambino in questo senso. Contemporaneamente, però, leggevamo articoli che parlavano di emergenza educativa nel nostro Paese e di statistiche che posizionavano la scuola italiana sempre più in basso.
Oltre alla ormai diffusa convinzione che le Leggi ci siano, ma che poi tutto resta come sempre, credo sia necessario fare alcune riflessioni, per capire la carenza che sta degradando il nostro sistema educativo.
Sino alla fine degli Anni Sessanta, il nostro sistema educativo aveva funzionato secondo un modello che potremmo definire come “scuola organismo”. Era la scuola gentiliana, governata e diretta dal centro, quella dove la norma era prescrittiva e che si reggeva su curriculum rigidi e programmi predefiniti. In tale àmbito, il ruolo del docente rispetto all’organizzazione era sostanzialmente passivo: il suo dovere, infatti, era quello di applicare le norme e il suo piano di lavoro – quando richiesto – era spesso la semplice trascrizione dell’indice del libro di testo.
Definisco questo modello “scuola organismo”, perché era caratterizzato da modalità di funzionamento analoghe a quelle dell’organismo umano, dove appunto i vari organi funzionano e interagiscono tra di loro secondo regole precise, e determinati fenomeni si ripetono in modo immutato e ciclico.
È questo il periodo che gli storici chiamano “dell’esclusione”: la “scuola organismo” non sapeva integrare il “diverso” al proprio interno, così come l’organismo umano rigetta un corpo estraneo.
Quel modello è andato poi in crisi, non solo sotto la spinta ideologica del Sessantotto, ma come conseguenza del passaggio dalla scuola “di élite” a quella “di massa”, a partire dagli Anni Settanta. Fu allora, infatti, che la scuola si organizzò secondo quello che potremmo chiamare come “modello arena”, vale a dire un’arena caratterizzata da un valore della norma sempre più debole e nella quale, rotti i vecchi schemi, nascono spontanee iniziative di sperimentazione, con diversi tentativi di progettazione settoriale.
È tipico di questo periodo avere, all’interno di un istituto, un gruppo di docenti che lavorano benissimo, programmando insieme e innovando la loro azione didattica, a fianco di altri che continuano più rigidamente a seguire i programmi e ignorano cosa fanno i colleghi. Ed è in questo clima che si avviano i primi inserimenti di alunni con disabilità nella scuola di tutti, con l’emanazione nel 1977 – preceduta dalla “Riforma Malfatti” del ’74 – della Legge 517/77, la quale pone come conditio sine qua non perché l’integrazione si realizzi, la modifica del contesto scuola.
Quest’ultima, però, è avvenuta successivamente solo in modo disorganico e disomogeneo, “a macchia di leopardo”, senza che il sistema nel suo complesso sia mutato, nonostante la stessa Legge Quadro 104/92. E le cose non sono cambiate molto nemmeno con la concessione alle scuole dell’autonomia didattica e organizzativa, un modello di “scuola sistema”, dove la norma è ormai solo un atto di indirizzo e nell’àmbito della quale ogni istituto esercita la propria autonomia di progettazione del POF (Piano dell’Offerta Formativa), definisce la propria Carta dei Servizi e il Regolamento Disciplinare, con la possibilità di modificare anche fino al 20% il curriculum, di rendere flessibile l’orario dei docenti nel corso dell’anno, di lavorare per classi aperte e così via.
La normativa, in sostanza, non è più prescrittiva: non descrive più il “come fare”, non precisa più le procedure specifiche, ma si limita a fornire gli “indirizzi”, a indicare le “piste” entro le quali muoversi, per raggiungere gli obiettivi definiti nel PTOF (Piano Triennale dell’Offerta Formativa).
Parallelamente all’evoluzione del sistema, vi è stata anche l’evoluzione dei princìpi ai quali si riferisce la scolarizzazione degli alunni con disabilità: sino alla fine degli Anni Sessanta, infatti, la loro educabilità era fondata su una pedagogia incentrata sulle specifiche disabilità (“scuole speciali” per alunni con disabilità intellettive, visive, motorie, auditive). Dai primi Anni Settanta, invece, la proposta pedagogica dei sostenitori dell’integrazione degli alunni con disabilità fece riferimento alla pedagogia “di tutti”, incentrandosi sull’alunno in quanto persona da educare. In pratica, il modello cui si ispirò la citata Legge 517/77, quando subordinò il successo dell’integrazione a un adeguamento del contesto.
L’evoluzione del modello, però, così come è avvenuta Anni Ottanta e Novanta ed è continuata negli Anni Duemila, ha sottovalutato l’importanza del contesto, rendendo il docente di sostegno il “perno” del processo di inclusione e favorendo il sorgere delle Cattedre di Pedagogia Speciale (non specialistica). Questo ha portato il modello dell’inclusione a fondarsi su una “Pedagogia Speciale” riservata solo agli alunni con problemi, e ha rafforzato ulteriormente lo sviluppo della delega all’insegnante di sostegno, creando il binomio tra l’alunno con disabilità e il “suo” docente per il sostegno. In tal modo, l’alunno con disabilità è diventato sempre più un “problema” di cui si occupa la Pedagogia Speciale o un “caso” di cui si devono occupare esperti del settore (psicologi, psicoterapeuti, neuropsichiatrici infantili, riabilitatori ecc.).
Come abbiamo detto, al di là di felici situazioni, nel suo complesso il sistema esprime ancora spesso scarse capacità e competenze progettuali, rimanendo incapace di utilizzare tutte le opportunità offerte dalla norma e restando in un “limbo” tra il “vecchio” che non c’è più e un “nuovo” che non si riesce a costruire, con l’inevitabile caduta di qualità del servizio scolastico in generale e la crescente incapacità di garantire il successo dell’inclusione degli alunni con disabilità.
Se questa è dunque – sia pur molto sinteticamente – l’analisi di come si è venuto evolvendo il nostro sistema scolastico e, al proprio interno, il modello di inclusione, è necessario cercare di capirne la causa profonda.
In questi due mesi, leggendo e rileggendo i testi degli Atti di Delega della Legge 107/15, per proporne gli emendamenti possibili, ho tratto alcune considerazioni che vorrei condividere con i Lettori.
Dagli Anni Settanta ad oggi, la scuola, dal punto di vista normativo, è molto cambiata, così come è cambiata la normativa sull’inclusione e in entrambi i casi in senso positivo. Nel corso del tempo, infatti, sono entrate nelle scuole diverse nuove figure, quale naturalmente il docente per il sostegno, ma anche psicologi, educatori, psicomotricisti, assistenti alla comunicazione alla persona ecc.
Alla scarsa specializzazione di tutti loro abbiamo spesso imputato la “debolezza” del modello di inclusione, e questo può essere vero, ma perché, sostanzialmente, il contesto di oggi è meno inclusivo di quanto lo fosse nei primi Anni Settanta e perché la nostra scuola non è riuscita a stare al passo con quella del resto d’Europa? Che cosa è mancato?
È proprio scorrendo gli Atti di Delega della Legge 107/15 che ho notato come nel nostro sistema educativo manchi una figura fondamentale, quella del pedagogista, tanto che nella commissione di valutazione per la definizione del Profilo di Funzionamento (prevista dall’Atto di Delega n. 378), volendo inserire una figura con competenze pedagogiche, non si è potuto far di meglio che indicare genericamente un rappresentante esperto del Ministero, mentre nella stesura del PEI (Piano Educativo Individualizzato) gli “esperti” sono tutti di area sanitaria (neurospichiatra infantile e riabilitatori).
Mi si dirà che i pedagogisti sono i docenti, ma se questo può essere vero nella scuola per l’infanzia e nella primaria, certamente non lo è nella secondaria. In quasi nessuno dei piani di studio che hanno condotto all’insegnamento delle diverse discipline, infatti, sono previsti esami di Pedagogia, Docimologia [ramo della pedagogia che si può collocare specificamente tra le tecniche sperimentali che si occupano dello studio dei sistemi di valutazione delle prove di verifica, N.d.R.] e Didattica della Disciplina (non sto parlando di crediti relativi alle tematiche della disabilità), e questo mentre la scuola dell’autonomia non è più la scuola del “programma uguale per tutti” (principio di uguaglianza), ma la scuola della progettazione di percorsi formativi “per tutti e per ciascuno” (principio di equità), una progettazione fatta per unità didattiche, per ciascuna delle quali dovrebbero essere previste le metodologie e gli strumenti didattici da utilizzare, i tempi e le modalità di valutazione formativa e sommativa da applicare, capacità di progettazione, queste, che possiede solo chi è un esperto pedagogista e che non appartengono certo alla generalità dei docenti.
Le grandi assenti dalle nostre scuole sono dunque le Scienze Pedagogiche: come potrà infatti diventare inclusivo un contesto scolastico in cui i docenti imparano ad insegnare “sulla pelle dei ragazzi”, di tutti i ragazzi?
Nell’Atto di Delega n. 377 sulla formazione iniziale dei docenti per la scuola secondaria si è chiesta l’acquisizione di almeno 30 Crediti Formativi Universitari (CFU) sulle tematiche pedagogiche riferite alla disabilità, ma come si potrà parlare con profitto di metodologie didattiche particolari a studenti che nulla sanno di Pedagogia e Didattica?
E ancora, è sicuramente lodevole avere inserito i servizi per l’infanzia (0-6 anni) nel sistema educativo (Atto di Delega n. 380), ma anche qui a sostenere le famiglie, fornendo consulenza, saranno, ancora una volta figure dell’area sanitaria (pediatri, psicologi e neuropsichiatri infantili), per i quali il bambino con difficoltà diventerà un “caso” da curare, anziché essere affidato a un pedagogista che si “prenda cura” della sua educazione e aiuti i genitori a vivere il proprio ruolo di educatori, fornendo loro gli strumenti per educare il bambino stesso, con attenzione alla sua diversità.
Infine, il già citato Atto di Delega n. 378, richiamando l’articolo 14 della Legge 328/00, per favorire l’inclusività del territorio, prevede, nella procedura per l’inclusione scolastica, la redazione del Progetto Individuale che, unitamente al Piano Educativo Individualizzato (PEI), dovrà essere alla base della definizione di risorse per il sostegno da affidare alla scuola. E tuttavia, anche in questo caso manca la figura che dovrebbe avere le competenze necessarie a tracciare un percorso educativo efficace, quella del pedagogista, che però il Decreto non poteva prevedere, non essendo tale figura ancora riconosciuta nel nostro Paese.
Se è vero, come è vero, che ciò che garantisce il successo del processo di inclusione è il livello di inclusività del contesto, se non vogliamo che questa resti, ancora una volta, una bella affermazione, è urgente il riconoscimento del pedagogista, figura che sia capace di “prendersi cura” (non di “curare”) dei ragazzi con disabilità, affiancando i genitori nei primi anni di vita, e non per indicare “terapie”, ma per suggerire comportamenti educativi e percorsi formativi idonei a sviluppare le potenzialità del loro bimbo, fornendo altresì alla scuola e alle diverse agenzie educative del territorio il necessario supporto per la progettazione di percorsi educativi attenti ai bisogni del singolo. In parole più semplici, quella figura che sia in grado di rendere i diversi contesti inclusivi, favorendo il superamento dell’emergenza educativa.
Da molti mesi è ormai giacente in Senato e sembra essersi arenato il Disegno di Legge n. 2443 (Disciplina delle professioni di educatore professionale socio-pedagogico, educatore professionale socio-sanitario e pedagogista), già approvato alla Camera, che prevede appunto l’istituzione di tale figura. Ci attende quindi una nuova battaglia, per rendere consapevoli i Parlamentari di un principio sul quale abbiamo promosso il processo di inclusione, quando affermavamo che la scuola capace di includere gli alunni più deboli è la scuola che va meglio per tutti. Perché dotare il nostro sistema educativo di una figura con specifiche competenze nel settore, vuol dire uscire dalla “medicalizzazione” della diversità, favorire il superamento dell’emergenza educativa e rendere la nostra scuola più efficace e inclusiva.