«Non chiedo comprensione, come tanti che conosco mi sto arrangiando da solo, come alla fine s’illudono di poter fare quasi tutti. Quelli per lo meno che, come me, i figli vogliono averli a portata di mano fino a che le mani ci reggeranno. So che altri, anche noti e che molto pontificano, i figli balzani tipo il mio hanno preferito farli rinchiudere, naturalmente ci sarà sempre qualcuno a rassicurare che è stato per “il loro bene”».
È questo uno dei passaggi chiave di un articolo (Tommy orfano. Quanta angoscia pensare al futuro), a firma di Gianluca Nicoletti, pubblicato il 15 maggio scorso dal quotidiano «La Stampa».
Su quell’articolo vorrei qui esprimere pubblicamente il mio punto di vista, senza alcuna polemica di tipo personale, cui non sono interessato.
Non so se sono… uno dei «quasi tutti», dal momento che mio figlio – che non offenderò mai chiamandolo «balzano» – non vive tutti i giorni con me, ma è ospite – da alcuni anni – di una comunità residenziale. Lo è perché alle tante sfortune della vita ne ha incolpevolmente aggiunta una, tra le più importanti: non aver mai potuto contare, come sarebbe stato giusto, su una vera famiglia. La mia, la nostra, si è infatti disgregata in fretta, deflagrando proprio – come avviene spesso – sull’incapacità di misurarsi seriamente con le complessità dell’autismo, che troppo tardi e troppo colpevolmente sono state riconosciute.
A molti non interesserà saperlo, ma ammetto, senza imbarazzo, che mi capita spesso di rivedere alcuni frame della mia storia: mi sono ritrovato all’improvviso solo, sbattuto fuori casa come succede a tanti padri che si separano, a contatto con giudici che nella migliore delle ipotesi hanno fatto finta di sfogliare il fascicolo di mio figlio, convinti forse che gli autistici fossero “quelli che guidano macchine e bus”, anziché persone speciali, molto speciali. Ho fatto i salti mortali per stargli vicino quando tornavo dal lavoro e sapevo che c’erano da fare i compiti, poi giocare, poi accompagnarlo da qualche “specialista”, poi… tanto altro. Sono stato – o per lo meno ho provato ad esserlo – padre, madre, compagno, nonno, confidente, maestro, educatore e chissà quant’altro.
Chi mi conosce sa di cosa sto parlando; chi ha letto i miei libri [tra i quali Mio figlio è autistico, Vannini, 2013, N.d.R.] ha percorso, insieme a me, attraverso quelle pagine, il calvario di una vita tormentata, in cui l’approdo in un centro, diurno prima e residenziale poi, dove non ho affatto «preferito farlo rinchiudere» (cosa che possono dire tantissimi genitori come me, in risposta a un’affermazione così volgare come quella virgolettata), a un certo punto è divenuto inevitabile.
Aggiungo che chi mi conosce sa anche, però, quanto grande abbia continuato ad essere, e sia, il mio impegno a favore di chi è il bene più grande della mia vita. Continuo e continuerò ad essergli vicino, lo sosterrò in tutti i suoi bisogni, combatterò fino all’ultimo per il riconoscimento dei diritti, suoi e di tutte le persone autistiche come Lui.
Lo farò come ho sempre fatto: mettendoci la faccia, senza filtri o mediazioni. Non ho mai avuto problemi nel denunciare le responsabilità e i limiti di una politica che, piaccia o non piaccia, non è un’entità astratta, ma è fatta di persone (con tanto di nomi e cognomi), di atti, di comportamenti. Considero il “cerchiobottismo” una grave malattia, soprattutto quando se ne fanno interpreti quelli che, con espressione roboante, vengono definiti personaggi pubblici.
In alcuni momenti trovo necessario opporsi (anche) fuori dei Palazzi, anziché limitarsi a presidiarli all’interno, seduti intorno a Tavoli Istituzionali inconcludenti. Il compito e la responsabilità che abbiamo dinanzi a noi sono innanzitutto quelli di lavorare alla costruzione di una piattaforma programmatica credibile, e a iniziative di lotta a sostegno, senza le quali temo che molte persone con difficoltà intellettivo-comportamentali, come i nostri figli, continueranno ad essere condannate a un iniquo destino di omologazione e pregiudizio, di solitudine e sofferenza.
Non resistere alla tentazione di dare, come sempre, i voti (da una parte “i buoni” – quelli che tengono i figli a casa – e dall’altra “i cattivi” che non lo fanno), è nella migliore delle ipotesi un’operazione irrispettosa verso persone e realtà di cui non si sa assolutamente nulla. Semmai la discriminante dovrebbe – deve – essere tra chi si impegna ogni istante di ogni giorno, in prima persona, davanti ai Servizi e alle istituzioni, magari sbagliando i congiuntivi, per rivendicare l’applicazioni di leggi esistenti solo sulla carta, e chi invece si limita a delegare, tranne poi tenere palloncini blu in mano ogni 2 Aprile, Giornata Mondiale per la Consapevolezza dell’Autismo.
L’autismo è una battaglia comune della quale sono parte “anche” le persone che vivono in centri residenziali, che certo «non fanno la bella vita» di altri (come banalmente viene ricordato), ma sono persone che esistono e vanno rispettate, insieme ai loro familiari. Rispettate sul serio, non scrivendo: «Sono scelte. Non giudico quelle altrui…». No, perché in realtà, in quell’articolo, un giudizio si coglie, eccome! Ed è colpevolmente ipocrita perché proviene da chi non ha i titoli e le conoscenze (oltre che le competenze) per formularlo.
Posso dimostrare – e insieme a me possono farlo molti altri genitori che hanno figli autistici in centri semiresidenziali o residenziali – che a “pontificare” spesso sono altri, magari insospettabili, che hanno una speciale vocazione ai contatti privilegiati e alle corsie preferenziali. Non commetterò l’errore di generalizzare, ma invito tutti a fare altrettanto!
Sono uno di quei «padri sempre più stanchi e sempre più isolati dalla società civile» (cito testualmente), eppure lotto ogni giorno al fianco di altri genitori che stanno come me o peggio di me. Lotto perché nessuno di loro si ammazzi, non sapendo come garantire una vita dignitosa ai suoi figli; lotto perché le persone autistiche abbiano una loro vita autonoma da vivere.
Lotto perché le leggi siano applicate e non solo annunciate; lotto perché ci siano meno palloncini blu e più diritti; lotto perché ci sia visibilità per madri e padri che non sanno come sbarcare il lunario, che non rincorrono “Autismo-Disneyland”, ma sono disperati: persone in carne e ossa che non hanno vetrina mediatica e che rappresentano, loro sì, lo standard.
Lotto perché cresca in ognuno di noi l’informazione e la conoscenza; lotto contro ogni settarismo e prevaricazione; lotto perché si capisca che l’autismo non è solo un fatto cognitivo comportamentale, ma ha in sé anche problematiche neurologiche e biomediche che per anni i cosiddetti Comitati Scientifici, di cui molti si riempiono la bocca a giorni alterni, si sono ben guardati dall’indagare.
Lotto perché le famiglie si convincano che è demagogico che qualche “intellettuale” si scagli solo contro gli insegnanti di sostegno, dimenticando che i disabili appartengono a “tutto” il Consiglio di Classe (compresi quei Dirigenti Scolastici che li presiedono, senza spesso conoscere la normativa…); lotto perché i LEA [Livelli Essenziali di Assistenza, N.d.R.] siano un punto di partenza e non di arrivo. Lotto perché ci siano meno retorica e meno opportunismo; lotto perché in ciascuno di noi prevalgano umiltà, ragionevolezza e rispetto.
Lotto per non avere più la sfortuna di leggere certi articoli.