È stato recentemente presentato, in occasione della dodicesima Giornata Nazionale del Malato Oncologico del 21 maggio, il 9° Rapporto sulla condizione assistenziale dei malati oncologici, documento elaborato annualmente dall’Osservatorio sulla condizione assistenziale dei malati oncologici*, dal quale si stima che per il 2016, nel nostro Paese, le persone vive dopo una diagnosi di tumore fossero più di 3,1 milioni (1,4 milioni di uomini e 1,7 milioni di donne), tra cui quasi 2 milioni con una diagnosi avuta da più di cinque anni (circa i due terzi del totale).
Complessivamente il 27% delle persone che nella propria esistenza hanno avuto una diagnosi oncologica possono dirsi “guarite dal cancro”, ossia la loro aspettativa di vita risulta simile a quella di chi non ha mai sofferto di tale patologia.
Gli italiani vivi dopo una diagnosi di cancro crescono in media del 3% all’anno e presumibilmente tale miglioramento appare riconducibile sia a una maggiore incidenza delle diagnosi precoci, sia all’efficacia raggiunta dalle terapie (chirurgia, radioterapia, trattamenti farmacologici).
I dati registrati in Italia risultano in linea con quelli europei e addirittura superiori alla media dell’Unione per molte forme tumorali.
In questo scenario, si legge nel Rapporto, «assumono sempre maggiore rilevanza i temi legati alle ricadute sociali della malattia oncologica, vale a dire a tutti quegli aspetti della vita quotidiana attraverso cui è possibile ritornare alla vita “normale” dopo il cancro». E si aggiunge: «Curare il cancro è già possibile. Per guarire dal cancro è invece necessario completare la rivoluzione culturale che il volontariato oncologico ha contribuito ad avviare, inserendo tra gli obiettivi della lotta ai tumori non solo l’aspettativa di vita, ma anche la sua qualità [grassetti nostri nelle citazioni, N.d.R.]».
Il Rapporto evidenzia per altro come negli ultimi anni in Sanità sia cresciuta la cultura della misurazione della performance, focalizzata però sul versante dei costi (si stima che l’incidenza dell’oncologia sulla spesa sanitaria nazionale sia di circa il 20%, con tassi di crescita tra il +5 e il +10% annuo) e sui risultati “verticali” dei diversi LEA (Livelli Essenziali di Assistenza). Tale approccio non coglie tuttavia la complessità del percorso “orizzontale” e trasversale ai LEA, e i suoi riflessi sul valore delle cure, che contraddistingue la risposta alle patologie oncologiche. In altre parole, non viene adottata la prospettiva del paziente e del suo percorso.
Diventa quindi necessario operare un cambiamento nei metodi e negli strumenti di raccolta delle informazioni, di cui un nodo nevralgico potrebbe essere rappresentato dalla cartella sociosanitaria informatizzata e dall’integrazione tra i diversi soggetti erogatori di interventi e servizi. Appare infatti cruciale superare una lettura unicamente sanitaria del fenomeno oncologico e misurare il suo impatto sull’intero sistema di welfare e sulla vita dei cittadini, considerando anche – accanto ai costi diretti sanitari – quelli di natura previdenziale e assistenziale, che assumono la forma dei trasferimenti monetari al cittadino impossibilitato a lavorare.
In tal senso si calcola che nel 2015 ogni giorno almeno 300 dei nuovi 1.000 casi di tumore siano stati diagnosticati a persone impegnate in attività professionali, interrotte a causa della malattia. E nel 2014 i tumori hanno rappresentato la prima causa del riconoscimento degli assegni di invalidità e delle pensioni di inabilità.
Inoltre, congiuntamente ai costi diretti, occorre considerare i costi indiretti, quali la mancata valorizzazione del lavoro di cura dei caregiver familiari o la perdita del capitale umano, in termini ad esempio di rinuncia al lavoro.
Sul versante degli impatti sul cittadino, il Rapporto ricorda l’esistenza di strumenti di ricerca capaci di indagare le conseguenze economiche del cancro e del suo trattamento, come nel caso del questionario EORTC C30 che viene usato frequentemente nelle sperimentazioni cliniche per misurare la qualità della vita dei pazienti affetti da cancro.
Una delle trenta domande poste agli intervistati (esattamente la 28^) recita: «Nell’ultima settimana, la malattia o il suo trattamento le hanno provocato difficoltà economiche?». E le risposte possibili sono quattro: «per nulla», «un po’», «abbastanza», «moltissimo».
In questo àmbito, nel 2016 è stato condotto in Italia un lavoro di analisi sui dati raccolti nelle sperimentazioni cliniche promosse dall’Istituto Nazionale dei Tumori di Napoli in cui era stato usato il questionario EORTC C30 (16 sperimentazioni condotte tra il 1999 e il 2015, cui hanno partecipato 3.760 pazienti affetti da tumori del polmone o della mammella o dell’ovaio).
Ebbene, già alla prima somministrazione del questionario, prima di iniziare la terapia medica, il 26% dei pazienti segnalava difficoltà economiche di grado variabile (da “un po’” a “moltissimo”), che condizionavano negativamente la possibilità che i pazienti avessero, nei mesi successivi, un beneficio della terapia sulla qualità di vita. Infatti, la probabilità di non riscontrare alcun beneficio risultava del 35% più alta rispetto ai pazienti senza problemi economici iniziali.
Il questionario EORTC C30 veniva somministrato ai pazienti non solo all’ingresso nello studio, ma anche ogni tre-quattro settimane, ossia prima di ogni ciclo di terapia.
Se si definisce dunque come “tossicità finanziaria” il peggiorare delle difficoltà economiche in corso di trattamento, dallo studio è emerso che il 22,5% dei pazienti soffriva di tossicità finanziaria. E per loro si è calcolato un rischio di morte nei mesi e negli anni successivi del 20% più alto rispetto a coloro che erano privi di tossicità finanziaria in corso di trattamento (al netto di altri possibili fattori concomitanti).
Gli esiti di tale studio risultano in parte inattesi, dal momento che i pazienti avevano partecipato a sperimentazioni promosse e realizzate all’interno del Servizio Sanitario Nazionale e non avevano dovuto in alcun modo contribuire al costo dei trattamenti, forniti gratuitamente dal servizio pubblico. Ciò nonostante, secondo i dati, il contraccolpo economico ha riguardato ben un paziente su cinque e, soprattutto, si è riverberato in un peggioramento della prognosi.
Sono risultati, questi, che appaiono coerenti con quanto già dimostrato in studi statunitensi: esiste un problema di difficoltà economica per chi ha un cancro, che rappresenta uno svantaggio nel conseguire un miglioramento della qualità della vita con i farmaci antitumorali. Una quota rilevante di pazienti vede peggiorare le proprie difficoltà economiche durante la terapia e tale peggioramento è un segnale predittivo di un maggior rischio di mortalità nei mesi e negli anni successivi. La stima di incremento del rischio di decesso calcolata nello studio italiano risulta però significativamente inferiore a quella pubblicata negli Stati Uniti (20% contro 79%) e presumibilmente ciò è da mettere in relazione con l’esistenza in Italia di un Servizio Sanitario Nazionale pubblico.
La riflessione critica che discende dallo studio italiano si lega alla considerazione che il peggioramento del rischio di morte tra i pazienti con tossicità finanziaria è simile all’effetto benefico di alcuni nuovi farmaci, da cui: prevenire o “curare” la tossicità finanziaria potrebbe avere un effetto positivo sulla prognosi dei pazienti, quasi quanto un farmaco, ma sicuramente senza effetti collaterali.
Il prossimo passo sarà quindi quello di esplorare nel dettaglio le cause e le conseguenze delle difficoltà economiche, per poter disporre di quel bagaglio conoscenze indispensabile a disegnare azioni correttive.
Un altro aspetto affrontato nel Rapporto è quello del cosiddetto engagement, ossia della partecipazione della persona alle scelte che la riguardano. L’assunto è che non si possano costruire risposte adeguate e al tempo stesso sostenibili senza che i pazienti diventino “parte integrante” del sistema di cure e assistenza. Vengono quindi presentati gli esiti di alcuni studi internazionali.
In un recente contributo (2016) pubblicato dal «Journal of the American Medical Association», si afferma che la partecipazione attiva e l’engagement della persona siano un passo necessario per raggiungere una gestione efficace e più sostenibile dei servizi sanitari.
In un altro studio del 2013, condotto su un campione di 33.000 pazienti affetti da patologia cronica e pubblicato da «Health Affairs», è stato dimostrato come un alto livello di engagement permetta di ridurre la spesa sanitaria fino al 21%.
Ma soprattutto un ulteriore studio del 2011, realizzato su un campione di oltre 2.000 pazienti ospedalizzati e pubblicato dall’«International Journal for Quality in Health Care», ha messo in luce come un alto livello di engagement sia associato alla riduzione del 50% degli eventi avversi post-dimissione.
Con riferimento specifico all’oncologia, evidenze scientifiche suggeriscono che il coinvolgimento del paziente nel processo di cura garantisca un miglioramento complessivo dei risultati clinici. Diversi studi, infatti, hanno evidenziato l’esistenza di una correlazione positiva tra il coinvolgimento attivo dei pazienti nei loro piani di cura e: la soddisfazione rispetto alle cure ricevute; la propensione ad adottare comportamenti preventivi di screening e checkup [indagini e controlli, N.d.R.]; una migliore qualità di vita fisica e mentale; la capacità di mantenere una buona performance lavorativa e un migliore benessere psicologico nella vita quotidiana. Inoltre altri studi rilevano come alti livelli di engagement costituiscano una strategia chiave per rendere più equo, efficace e sostenibile il sistema sanitario.
Scorriamo infine i dati forniti nel Rapporto in tema di riconoscimento dell’invalidità civile e dell’handicap, riguardante le persone con patologie oncologiche.
Rispetto alla previsione della Legge 80/06, che fissava i termini per l’accertamento da parte delle commissioni mediche in 15 giorni dalla domanda dell’interessato, nel 2016 – per le domande motivate da patologia oncologica – si registrava un tempo medio nazionale di circa 60 giorni, ancora distante dalle indicazioni normative. Tempi più vicini a quelli previsti dalla Legge sono stati invece registrati in quelle realtà territoriali dove l’INPS svolge l’intero percorso di accertamento, in forza di apposite convenzioni stipulate con le Regioni. In alcune di tali realtà, in particolare in Friuli Venezia Giulia, una considerevole percentuale di visite ex lege 80 risulta espletata entro i 15 giorni previsti.
Nel Rapporto, infine, vengono forniti i dati sulla diffusione del certificato telematico oncologico introduttivo, elaborato nel 2013 dall’INPS per garantire omogeneità e correttezza delle valutazioni, la cui compilazione è affidata agli oncologici che hanno in cura il cittadino. L’efficacia di tale strumento risulta ad oggi vanificata dalla scarsa adesione da parte degli oncologi. Infatti, sebbene nel 2016 si sia registrato, rispetto al 2015, un aumento prossimo al 50% del numero di certificati oncologici introduttivi, la distribuzione regionale rimane fortemente disomogenea, provenendo oltre un quarto del totale di tali certificati dal solo Piemonte. Inoltre, risulta ancora del tutto insoddisfacente il rapporto tra domande corredate da certificato oncologico e globalità delle domande per patologia neoplastica.
* Hanno aderito alla costituzione dell’Osservatorio sulla condizione assistenziale dei malati oncologici e fornito contributi all’elaborazione del presente Rapporto: FAVO (Federazione Italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia), CENSIS, AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica), AIRO (Associazione Italiana Radioterapia Oncologica), SIE (Società Italiana di Ematologia), Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, Federsanità ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani), FIMMG (Federazione Italiana Medici di Medicina Generale), SIPO (Società Italiana di Psico-Oncologia), SICO (Società Italiana di Chirurgia Oncologica), AIRTUM (Associazione Italiana dei Registri Tumori), INPS, FIASO (Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere) e Ministero della Salute.