«Una menzione speciale a una donna speciale. Nel suo racconto Il giorno del Civetta è protagonista di un’impresa straordinaria: la sua scalata da non vedente, superata con l’aiuto degli altri sensi, resi aguzzi dalla deficienza di uno di loro. Con uno stile scorrevole e in maniera ferma, l’Autrice riesce a comunicarci, attraverso la scrittura, le sue percezioni ed emozioni, affidandole agli altri sensi».
È con questa lusinghiera motivazione che Stefania Leone, consigliera dell’ADV (Associazione Disabili Visivi) e “firma” spesso presente – e gradita – sulle pagine del nostro giornale, è stata premiata in Toscana il 25 giugno scorso – come avevamo anticipato la scorsa settimana – tra gli Autori selezionati per una menzione speciale, al III Premio Letterario Donne tra Ricordi e Futuro, iniziativa promossa da Lorena Fiorini e rivolta alle donne che vogliano ripercorrere e raccontare le proprie e altrui esperienze di vita.
E come promesso, ben volentieri presentiamo ai Lettori quello stesso racconto, non mancando di ricordare che la stessa Stefania Leone è una “veterana” delle “Settimane Verdi” e “Bianche” sulle Dolomiti, promosse ormai da molti anni dall’ADV, che anche la nostra testata segue puntualmente.
So che oggi la passeggiata sarà impegnativa. Ho deciso di curare bene il mio abbigliamento. Giro nella stanza d’albergo e tocco il letto, cercando la felpa. Poi apro l’armadio e scelgo al tatto la maglia. Stringo bene gli scarponi. Credo di aver messo nello zaino tutto ciò che mi servirà… Ah no! Riempio la borraccia d’acqua e poi prendo il bastone, non quello bianco, mi serve quello per le camminate e poi gli occhiali da sole.
Sono emozionata, stamattina è prevista l’escursione fino ad un rifugio in alta quota e dormiremo lì, a 2.280 metri di altezza, non ho mai dormito in un rifugio, ne sono incuriosita.
Cosa mi aspetterà, sarà lunga, come andrà la notte? Incontreremo persone diverse da quelle del nostro gruppo di amici?
Se penso a quanto voglio bene a queste guide, ormai, amici, Vigili del Fuoco e Carabinieri- Forestali, non so, mi viene da ridere e piangere insieme. Certo sono molti anni che non vedo più allo specchio i miei occhi pieni di lacrime o la mia bocca che ride, ma penso di avere delle fortune nonostante tutto. Ecco, questa è una di quelle fortune a cui non tutti credono. Ma noi che siamo qui, noi ci crediamo, eccome. Amiamo metterci alla prova, percorrere questi spazi della natura e questi spazi interiori che la montagna, il gruppo, i volontari ci offrono.
Mi aspetta il camioncino dei Vigili del Fuoco, seguo le voci, che chiasso che facciamo tutti insieme! Poi qualcuno mi aiuta a salire, il cane guida della mia amica mi lecca le mani, ma ha capito che mi dà fastidio.
Alle 9 partiamo per il Rifugio M. Vazzoler, da qui lasciamo i pulmini e ci incamminiamo ognuno con la propria guida, lentamente ma neanche troppo. Sono contenta di me e di questa esperienza con i miei amici. La difficoltà e la pendenza del sentiero mi arrivano dalle percezioni che ricevo dai piedi, dalla pelle del volto e delle mani che sentono l’aria, dalle orecchie che percepiscono i suoni del vuoto, del pieno, dei silenzi e dei rumori e tutto il mio corpo sente che siamo qui e provo dei brividi di piacere, fortissimi.
Penso ai grandi camminatori, agli scalatori, agli esploratori che per primi hanno amato la montagna vivendola, non solo guardandola. Ecco, io la guardo con gli altri occhi che la natura mi ha dato, la pelle, l’olfatto, il tatto, il senso dell’equilibrio, la forza di volontà e la salute e infine la capacità di lavorare con l’immaginazione.
Ho perso la vista da ragazza, lentamente, avevo più di 20 anni e seppure non posso dire che sia stata una gran fortuna, il fatto di aver visto mi dà la possibilità di ricordare le immagini, i colori e di costruirmi un’idea di ciò che mi circonda, oltre che dalle mie sensazioni, anche dalle descrizioni di chi cammina con me, portandomi sotto braccio.
Il percorso è molto vario, una strada bianca per il primo tratto, ripida ma larga e comoda, poi pian piano si restringe e si trasforma in sentiero, un poco più scomodo da percorrere; in alcuni punti la mia guida, che ormai è un’amica, mi descrive i particolari, ma per la strettezza della via dobbiamo stare l’una dietro l’altra e io la seguo tenendo una mano sul suo zaino, l’altra tiene il bastone con cui tasto il terreno, così capisco di quanto si sale e dove devo mettere i piedi. Camminare in questo modo, però, mi fa chiacchierare meno, devo concentrarmi, parlare mi fa affaticare, bisogna che si “rompa il fiato” e si prenda il ritmo, ma il sentiero è la montagna più autentica.
Passa circa un’ora e il percorso spiana, un bel prato, lo spazio è ampio, sembra una vallata, il sole è caldo, meno male che il brutto tempo che era previsto nella mattinata è passato.
Ci sono mucche al pascolo, sento i campanacci che hanno al collo, entriamo nel loro recinto, lo percorriamo e richiudiamo il cancelletto dietro di noi.
Dopo un’altra mezz’ora circa ci sediamo sull’erba e consumiamo soddisfatti il nostro pranzo al sacco, panini, frutta e qualcuno fa girare della cioccolata, sempre utile un po’ di energia e poi sono golosa, ma direi che oggi posso permettermelo senza rimorsi di coscienza.
Non ho idea di quanto manchi all’arrivo, le guide sono tranquille e non ne parlano, qualcuno racconta qualcosa, un altro ci legge dei brani da diari di escursionisti e la dottoressa esperta di quelle zone ci racconta degli aneddoti. Mi faccio l’idea che abbiamo percorso più della metà del percorso, oh quanto mi sbaglio!
Poi riprendiamo il cammino, ma abbiamo quasi altre tre ore fino alla cima, incontriamo due ragazze tedesche, poi degli spagnoli e poi, incredibile, degli scalatori thailandesi! Che bella cosa, in montagna ci si saluta sempre, scambiamo qualche frase in inglese, ci raccontano che fanno il percorso dell’Alta Via, un’intera settimana in quota, con zaino in spalla e tappe nei rifugi, la mia schiena non ce la potrebbe fare!
Riprendiamo a camminare, i più veloci sono già molto avanti, io sono nel gruppetto di coda, così gusto meglio tutte le cose che incontriamo: camminiamo in quello che milioni di anni fa era un lago, una geologa che è con il nostro gruppo ci descrive alcuni tipi di rocce e trova dei fossili, li tocchiamo, milioni di anni fa qui c’era il mare, incredibilmente era una zona tropicale.
Finisce la pacchia, ora si comincia a salire sul serio, il sentiero è ripido e, in alcuni tratti, complicato a causa di sassi e radici, la mia guida è brava, capisce che sono stanca e con la scusa di raccontarmi il panorama, mi fa riprendere fiato di tanto in tanto.
Scatta delle foto, e nonostante sia di queste parti, lei stessa si emoziona ogni volta che sale fin qui in alto. Mi dice che vede il Rifugio Tissi lassù (prende il nome da un noto scalatore), ma lassù quanto?
Ecco, il fatto di non vedere quanto manchi e di non poterlo misurare con gli occhi mi mette a disagio; per noi che non vediamo, conoscere preventivamente i tempi sarebbe un utile modo di dosare le forze e le energie e spesso chi vive in montagna si limita a dire «manca ancora un poco». Ho imparato il loro linguaggio, e finalmente quando mi sento rispondere «ci siamo quasi», vuol dire che con il mio passo, bisogna salire ancora una mezz’ora.
Fa caldo, siamo a fine giugno e il sole è ancora alto, sono quasi le cinque del pomeriggio e arriviamo finalmente in cima. Che emozione, che vento freddo quassù, ma ce l’ho fatta, l’ultimo pezzo è stato ripido, ma si saliva bene, senza scivolare, la roccia era compatta e dura e gli scarponi facevano presa.
Salgo i pochi scalini di legno e arrivo sul ballatoio del rifugio, ci accolgono i primi arrivati e ci fanno lasciare gli zaini perché c’è una sorpresa.
Dietro il rifugio, un percorso di prato e piccoli sassi, poi una grande croce e poco dietro il vuoto: le nostre guide ci dicono di metterci carponi, immagino che vederci a un passo dal baratro debba farli stare male!
Dopo un po’ di insistenze riusciamo a convincere le nostre guide, Ci faranno avvicinare al bordo. Ci stendiamo a terra per toccare il baratro con le mani, allungo un braccio e sento che la parete di erba scende giù, davanti a me uno strapiombo di mille metri. Siamo sopra Alleghe, e in lontananza la parete sud della Marmolada, mi sembra di vederla.
Percepisco lo spazio davanti a noi. Il vuoto sotto di noi, laggiù il paese e il famoso lago, lo conosco, ci siamo andati in canoa e diversi inverni siamo venuti a sciare qui e la cabinovia è proprio lì sotto. Chissà se qualcuno ci sta guardando e pensa che siamo dei folli!
Comincia a far freddo, si rannuvola, ed è ora di rientrare, dobbiamo sistemarci nelle stanze. Prendiamo le misure per orientarci e muoverci autonomamente negli spazi limitati. Così ci organizziamo contando le porte e gli ostacoli per arrivare ai bagni: qui i servizi sono essenziali, per i veri camminatori il lavarsi non è la prima necessità, ma ci arrangiamo senza problemi. Dormiremo su brande in letti a castello, compro un sacco lenzuolo presso il rifugio, il sacco a pelo non l’ho portato perché pesava troppo sulla schiena, comunque penso che non si dormirà tantissimo.
Si cena presto e si passa una piacevole serata al Rifugio Tissi. Quanti racconti affascinanti, in compagnia, alle nostre spalle dalla finestra si vede la parete nord-ovest del Monte Civetta, imponente e superba, meta di scalatori da tutto il mondo. Avverto l’emozione delle guide che si voltano di tanto in tanto per guardarla, mentre il tramonto ne cambia il colore fino al buio completo.
Poi inizia a nevicare. Non è possibile, allora il bollettino meteorologico aveva detto bene, non che sia un problema, qualcuno pensava fosse un azzardo, ma noi no, noi siamo saliti ugualmente!
Incredibile, siamo a giugno e nevica per bene come se fosse dicembre…
Alle 22 dobbiamo fare silenzio e andare a dormire, i cani del nostro gruppo sono buonissimi durante la notte. In camerata la notte è breve. Ci si alza presto, in un rifugio, senti il sole che arriva, l’aria che cambia, senti il desiderio degli amanti della montagna che iniziano a vivere il momento in cui usciranno, cammineranno. Fuori c’è un gran silenzio. Mi dicono che è tutto imbiancato!
A terra ci sono circa 40 centimetri di neve, ma, date le previsioni del tempo, ci eravamo attrezzati.
Sono le 8 e mezza; è ora di ripartire e riprendere la discesa, ma prima andiamo a dare un’ultima occhiata al Civetta, dietro il rifugio; la parete è imponente, l’avverto quasi come un muro, cerchiamo di indovinare quanto sia distante, qualcuno dice 500 metri, qualcun altro 200, invece sono circa 1.000, io l’avverto e la immagino vicina nel suo grigio intenso.
Ora si è un po’ imbiancata, il suo colore ci è descritto dagli amici vedenti che, felici di farlo per noi, ne raccontano così bene i dettagli. Sentiamo anche un rombo sordo, si tratta di scariche di sassi, pericolosissime per chi arrampica, qui non si scherza!
Salutiamo gli amici che gestiscono il rifugio e riformando le coppie ci avviamo nella discesa: i percorsi possibili sono più di uno, ma noi faremo lo stesso dell’andata perché già così è complicato per la neve che ha ricoperto tutto e ne ha cambiato lo scenario. Ad ogni passo affondano un po’ gli scarponi, bisogna quindi andare cauti, la neve semplifica le cose, ma nasconde eventuali buche.
Qualcuno ha timore, non direi paura, ma io no, sento che la mia guida è fiduciosa ed è tranquilla, e mi comunica la sua serenità, anche se forse non lo è fino in fondo. Mi racconta che man mano che si scende, il paesaggio si va avvolgendo nella nebbia e si riduce di molto la visibilità. Dentro di me penso che questo non sia proprio buono!
Veniamo contattati dal Comando Regionale del Veneto dell’allora Corpo Forestale dello Stato (da poco confluito nelle Forze dei Carabinieri), ci chiedono se abbiamo bisogno di aiuto o soccorsi. Lì per lì la cosa mi sembra buffa, stiamo così bene! Ma forse sottovaluto i rischi che stiamo correndo.
Camminiamo facilmente in discesa perché la neve morbida arrotonda le asperità del terreno, i sassi e i gradini della salita sono spariti, e dobbiamo solo stare attenti a non sprofondare troppo. Non mi rendo conto, invece, che stiamo rischiando di perderci, la nostra fortuna è che siamo in compagnia di guide che, oltre ad essere brave fisicamente e preparate a condurre dei ciechi, conoscono il posto, qualcuno più di qualcun altro, e ci affidiamo a chi quei sentieri li fa spesso anche di sera.
Non ci impieghiamo molto, in generale i percorsi di ritorno durano circa la metà del tempo, la nebbia però ci rallenta un po’.
Finalmente prima di mezzogiorno vediamo, o meglio sentiamo in lontananza le voci dei colleghi delle nostre guide che ci chiamano e ci vengono incontro, preoccupati per noi a causa della nevicata, ma visibilmente sollevati nel vederci arrivare scendendo tutti baldanzosi e felici.
Queste persone mi comunicano la loro emozione e mi fanno amare il Monte Civetta come se lo conoscessi da sempre, come se lo avessi scalato, come tutte le cose che facciamo quando siamo qui, in montagna, scaliamo, scaliamo e saliamo e poi – incredibile a dirsi, lo so – vediamo, e quelle immagini, a distanza di cinque o sei anni, io le ho ancora in mente e negli occhi.