Attualmente il mondo della disabilità è attraversato da spinte centrifughe che complicano enormemente una fase già delicata in sé. Si è sostanzialmente esaurita la propulsione verso la ricerca del “favore” e delle “raccomandazioni”, o per lo meno è su un piano che scivola in verso discendente.
Questo sarà forse stato causato dai maggiori controlli di bilancio esercitati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, dovuti al Patto di Stabilità Europeo e Italiano. Oppure sarà stato cagionato dai controlli della Corte dei Conti, che può sanzionare individualmente il dirigente o il funzionario pubblico per danno erariale. Di certo è che la spesa facile coi soldi dei cittadini contribuenti è un ricordo del passato. Sia chiaro: non che non ci siano più malversazioni, corruzione, diseguaglianze nella spesa, familismo e raccomandazioni. Certo è che in qualità e quantità non ha nulla a che spartire con quella degli Anni Settanta e Ottanta.
È anche e soprattutto la crescita della consapevolezza delle persone con disabilità e dei loro familiari che sanno di avere dei diritti (qualcuno comunque ha combattuto per arrivarci) e li praticano ricorrendo anche alla giustizia ordinaria, con il risultato di fare esprimere persino la Corte Costituzionale con la Sentenza n. 80 del 2010 nel caso del diritto allo studio. Con uno slogan: non più “per favore”, ma per diritto. La legge e la sua concretizzazione divengono il faro delle persone con disabilità e dei loro familiari.
C’è poi la caduta delle ideologie sulle quali si è costruita la nostra democrazia. Sembrerà strano, ma abbiamo avuto “versioni partitiche” dell’approccio alla disabilità: da quello caritatevole, a quello dell’uguaglianza sostanziale, passando attraverso i diritti civili, l’integrazione e l’approccio comunitario dell’accoglienza. Ovviamente tutto ciò corrispondeva a un partito e financo a una corrente.
È ancora più sorprendente che molte realtà associative – così come altre formazioni sociali – facessero riferimento a questa o a quell’area politica, ascrivendosi talvolta a uno di questi approcci. Non è un caso che la progressione dei diritti delle persone con disabilità, per l’intera durata della cosiddetta “Prima Repubblica”, si sia inabissata e quindi ancorata all’approccio categoriale, fin troppo facilmente riconducibile alle corporazioni fasciste. Non è un caso che la prima Legge (104/92) che favorisce l’approccio ai diritti delle persone con disabilità e dà una prima parziale concretizzazione al dettato costituzionale sulla rimozione degli ostacoli per il pieno sviluppo della personalità, giunga al crepuscolo della Prima Repubblica. In “Zona Cesarini”, ovvero quando quelle forze politiche e sociali sentono venir meno il terreno sotto i piedi.
La decostruzione di quel sistema politico, istituzionale e sociale passa attraverso la crisi di Tangentopoli (che coincide col crollo della lira e quindi con gli interventi draconiani dell’allora Governo Amato), un dramma politico, sociale ed economico che porta il nostro Paese a un livello tale che solo il potente fenomeno della resilienza collettiva, poteva salvare.
Le direttrici di uscita sono tre: sistema istituzionale fondato sull’alternanza; la costituzione di nuove forze politiche; e, contestualmente, l’affacciarsi di nuove classi dirigenti. L’approccio alla disabilità si semplifica: liberista e compassionevole da un lato, basato sui diritti e sulle opportunità dall’altro. Nel primo caso ci si orienta verso l’alleggerimento dell’intervento pubblico, che mira a restituire reddito ai cittadini i quali se la devono cavare da sé e interviene unicamente nelle situazioni estreme. Il secondo tende a costruire l’architrave istituzionale dei diritti e il perimetro della loro concretizzazione, talvolta alludendo all’eguaglianza di opportunità. Con quattro grandi caveat:
1. La scarsezza di risorse pubbliche da investire in qualsivoglia direzione “grazie” all’enorme debito pubblico e a una spesa pubblica inamovibile per diritti acquisiti, ciò che crea enormi diseguaglianze.
2. Il sorgere di spinte localiste e persino indipendentiste, che portano a una vera e propria devoluzione dei poteri verso i livelli locali – Regioni e Comuni – con la formazione di nuove centralità nel potere decisionale e di collocazione delle risorse.
3. Una cultura giuridica fondata sul diritto romano che, a differenza di quella anglosassone, si fonda sulla definizione particolareggiata dell’articolazione normativa, per cui ciò che è scritto non va interpretato e ciò che non è scritto non appartiene alla possibilità di decodificazione, con l’esito di costituire una produzione normativa smisurata, di difficile possibilità di compressione e il cui incrocio genera arbitrarietà nell’attuazione.
4. Un sistema politico con enormi debolezze, come ad esempio la contraddizione tra il “nuovismo” del rapporto col cittadino elettore e il riciclaggio di intere classi dirigenti nel centrodestra, e l’antinomia tra la cultura delle opportunità (con pochi vincoli) del liberalismo e del cattolicesimo democratico, e quella dei diritti della sinistra dell’uguaglianza sostanziale (con molti vincoli) nel campo del centrosinistra.
Con queste premesse si sarebbe dimostrato impossibile rendere misurabile e percepibile da parte dei cittadini l’approccio neoliberista del centrodestra o quello socialdemocratico del centrosinistra: le persone con disabilità e i loro familiari non hanno visto né più risorse in tasca per acquistare i servizi più adeguati, né più servizi pubblici su misura e di loro scelta.
La domanda è sempre sopraffatta dall’offerta. I fenomeni di istituzionalizzazione e contenzione non trovano né confini né compressioni, anzi, conoscono una nuova primavera.
A grandi linee nasce da qui la disillusione verso la politica della cosiddetta “Seconda Repubblica”, e porta con sé, nel proprio fallimento, tutti i rituali e tutti i suoi interpreti, compresi coloro che non sono certo stati acquiescenti, quali ad esempio le formazioni sociali come il mondo della rappresentanza sindacale, quello dell’impegno civico e sociale del Terzo Settore, e persino verso le forme di advocacy [“tutela”, N.d.R.] delle stesse organizzazioni di persone con disabilità e familiari, anche delle più innovative.
D’altro canto il mantra è la disintermediazione: niente più deleghe, si parla di autorappresentanza.
Accanto a un’effettiva prima legittimazione delle capabilities [“capacità”, N.d.R.], si affacciano fenomeni di disgregazione sociale, come ad esempio il riconoscimento collettivo di santoni e guaritori in chiave antisistema clinico castale, che trovano rappresentazioni politiche e sociali.
Insomma, le persone con disabilità e i loro familiari diventano adulti, ma questa maturazione non è completa. Proprio la disgregazione assurge a fattore catartico: un tutti contro tutti in cui diventa difficile persino identificare l’avversario da affrontare. Persino il concetto stesso di inclusione può diventare un nemico in questa situazione, poiché parola svuotata di senso per la forte critica (giusta o sbagliata che sia) verso i suoi interpreti.
D’altro canto, c’è un irrisolto: tuttora le persone con disabilità vivono principalmente di prestazioni e servizi connotate dal vecchio sistema risarcitorio. Facciamo alcuni esempi.
L’indennità di accompagnamento erogata al titolo della minorazione, con un sistema para-assicurativo pubblico.
L’interdizione e l’inabilitazione come approccio giuridico centrale del nostro sistema normativo sulla disabilità, assieme agli articoli 153 e 154 del Testo Unificato di Pubblica Sicurezza del 1931 (sotto il titolo Persone pericolose per la società).
Il vero ed unico obbligo assistenziale per la Pubblica Amministrazione ad ogni livello, è ovviamente in istituto.
L’insegnante di sostegno riconosciuto in base ad una certificazione clinico assistenziale e costituito per lo più senza specifiche capacità professionali (molti laureati ex ISEF da ricollocare).
L’erogazione di ausili e protesi per compensare la menomazione – come esplicitato dalla norma -, e non per la salute e l’autonomia delle persone.
Il Centro Diurno come luogo di vita di persone con disabilità in chiave decisamente contenitiva.
Il diritto al lavoro tuttora interpretato come sistema di tassazione dal mondo produttivo del Paese, agevolato da evidenti incrostazioni normative, come l’ancoraggio ai Servizi Pubblici per l’Impiego, che raramente hanno superato la storica identità degli Uffici dell’Impiego e della Massima Occupazione.
La residenzialità dell’età adulta e del “Dopo di Noi” ancora concentrata in istituzioni totalizzanti, attualmente semplicemente accreditate come RSA [Residenze Sanitarie Assistenziali, N.d.R.] e simili.
La riabilitazione tuttora come simulacro della guarigione possibile e del recupero dell’organo, in cui lo spazio dell’empowerment [crescita dell’autoconsapevolezza, N.d.R.] e dell’adattamento volano via lontano.
Questi ed altri elementi generano la faglia tra la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata con la Legge 18/09, e la vita reale delle persone. Cosi non si riescono ad intravedere i veri punti di aggressione del sistema che impediscono l’esercizio pieno della libertà per le persone con disabilità. Proviamo invece a dargli un confine: l’approccio giuridico difficilmente votato a fare chiarezza, se per la Costituzione esistono i diritti sociali; l’ipocrisia della “transizione” verso la vita nella comunità di tutti, concetto proprio della costruzione dei Centri Diurni e della riabilitazione, laddove nel primo caso non si apprezzano percorsi di inclusione e nel secondo domina la reiterazione del progetto individuale nel caso dei più gravi; le coazioni a ripetere della collocazione delle risorse, stigmatizzate fin dalle prime esperienze dei Piani di Zona, un’inamovibilità che ha reso inutile la coprogettazione e il progetto individuale; politiche nazionali che frammentano fondi e interventi, avverso la costruzione di livelli essenziali dei diritti civili e sociali e norme approvate in assoluta autonomia rispetto alla Convenzione ONU; politiche locali che aderiscono solo nella forma ai diritti umani, mentre nella sostanza sono refrattarie ad ogni novità; purtroppo anche soggetti sociali ripiegati su se stessi e rattrappiti nella loro conservazione, in particolare a livello locale, dove domina un’interlocuzione con le Istituzioni fin troppo spesso fondata su una domanda risarcitoria, avallando le forme di conservazione.
Non è facile districarsi in tutto ciò e trovare una exit strategy, ma ci dobbiamo provare.
Ci sono tre grandi aree solo parzialmente esplorate:
– bisogna insistere nel ribaltare il malsano rapporto tra “domanda” e “offerta”, controllato da quest’ultima, realizzando un vaste programme di tipo educativo e rieducativo (capacity building), ma anche di interventi chirurgici normativi, per eliminare gli ostacoli che si frappongono fra la persona e la sua scelta libera;
– incentivare la normazione creata da Sentenze giuridiche, poiché anche in questo caso la Magistratura supplisce dove le forze politiche non arrivano, attraverso cause pilota e una loro diffusione nel Paese;
– strutturare la concreta declinazione dell’inclusione sociale e di tutte le prescrizioni normative della Convenzione ONU attraverso l’articolazione di indirizzi e standard tecnici, fondati sulla letteratura scientifica. All’esistente non viene chiesta scientificità, ma per superarlo si. Di molte straordinarie esperienze di inclusione generate nel nostro Paese, si trova traccia in pubblicazioni non indicizzate, e quindi spesso utilizzabili come memorie, non come modello.
Questi assi non poggiano sul nulla. C’e una grande ricchezza nel nostro Paese, fatta di norme, di esperienze, di istituzioni, di formazioni sociali (lavoratori e terzo settore), di imprese, di associazioni e di singole persone e professionisti in perenne movimento verso il cambiamento che produce opportunità e diritti per le persone con disabilità. C’e quindi una parte del Paese che non si arrende e soprattutto va avanti nonostante tutto. È quella parte di Paese sulla quale si deve far leva per migliorare l’altro.