Ho letto sul «Corriere della Sera» l’articolo intitolato Se in Islanda scompaiono i bambini down, dedicato appunto alle (non) nascite dei bimbi con sindrome di Down in Islanda, ed essendo padre di una di loro, vorrei esprimere qualche breve considerazione.
Pur non entrando nel merito delle scelte personali, credo sia necessario essere onesti. Avere un figlio con sindrome di Down non è una passeggiata, comporta certamente delle difficoltà in più, ma per favore non si affermi di fare il bene di questi bambini o di «prevenire la loro sofferenza» non facendoli nascere, come afferma in quell’articolo una psicologa islandese.
Se quella psicologa ci inviterà in Islanda, potrà chiedere a Giulia, mia figlia – che è stata promossa in seconda media, che frequenta un gruppo scout, che pratica nuoto sincronizzato e surf, e che mentre scrivo questa nota, sta giocando sotto l’ombrellone con i cugini a Reazione a catena – se avrebbe preferito non nascere.
Potrà inoltre vedere da vicino una persona con sindrome di Down (rarità assoluta nel suo Paese), accorgendosi che i tempi si evolvono e che le persone Down (con tutte le difficoltà del caso) vanno a scuola, lavorano, praticano sport e, come tutti gli altri, possono anche essere felici.
Infine le regalerò un libro scritto da una mamma, Isabella Piersanti (Da piccola ero Down, Il Prato, 2017), dove si legge nell’introduzione che «avere una figlia con sindrome di Down non è un dramma e non significa non essere più felici».