Siamo nel 2004. Giulia ha 15 anni, i capelli lunghi che le arrivano in fondo alla schiena, rossi e ricci. Frequenta la seconda liceo scientifico, è la prima della classe senza essere una “secchiona”. Ha personalità, è determinata e testarda. Veste anonimi maglioni, non è il tipo che segue la moda. Ama la musica e legge Harry Potter.
Oggi Giulia ha 28 anni, continua ad ascoltare musica e scrive canzoni rap con la speranza che un giorno J-Ax e Fedez le cantino. Ha viaggiato, è stata a Barcellona in camper e poi a New York…
Sembra la storia di una ragazza come tante, ma nel cammino di Giulia c’è stata una curva imprevista, di quelle che si pensa capitino sempre agli altri. Il percorso dopo quella curva, frammentato da flashback, è raccontato in L’amore non toglie la vita (Mondadori, 2017, disponibile anche in ebook), libro curato dal giornalista Pierangelo Sapegno e firmato da Maura Lombardi, la mamma di Giulia.
Maura ha imparato che non nasciamo capaci di combattere il destino avverso, lo diventiamo. Ha imparato che si può convivere con un perenne senso di oppressione, ci si fa l’abitudine. Maura sa che la normalità di ogni giorno, di cui a volte ci lamentiamo perché sembra così banale, è invece una condizione di benessere.
Queste consapevolezze hanno iniziato a farsi strada il 24 marzo 2004. Giulia era in pullman con le amiche, stava andando a casa della nonna. Rideva e scherzava, ha girato la testa e le è scoppiata una vena nel cervelletto. Aneurisma dovuto a una rarissima malformazione congenita, è stata la spiegazione dei medici. L’hanno sottoposta ad un intervento complesso, senza grandi aspettative, ma «a 15 anni si deve dare una chance», ha detto il neurochirurgo.
Dopo dodici ore sotto i ferri, Giulia era viva, sì, ma trasformata in quello che si definisce freddamente “un vegetale”. Inerte e irriconoscibile, i capelli rossi rasati, gonfia e non più magrolina. Mangiava attraverso un buco che le faceva arrivare il cibo nello stomaco, una macchina per la respirazione artificiale attaccata alla tracheotomia le immetteva aria nei polmoni, tubi e cannule l’avvolgevano.
Maura sa che le ultime parole della figlia prima di perdere i sensi sono state «Voglio la mamma», e vi si aggrappa con una forza che non sospettava di possedere. Da quel momento, per sette anni, il mondo di Maura ruota intorno a Giulia, che è stata la sua ragione di vita da quando è venuta al mondo, e adesso lo è ancor di più.
Con giri di parole e discorsi gentili le dicono che la ragazza non può percepire ciò che la circonda, ma lei sa che non è vero. Dal fondo del suo buio Giulia la sente, Giulia parla, anche se non emette suoni. Rimane sempre ferma con la testa immobile, gli occhi rivolti al soffitto, è vero, però se si avvicina qualcuno che non le sta simpatico chiude gli occhi, si irrigidisce. I sanitari li chiamano «normali fenomeni neurovegetativi», sta di fatto che quando ascolta una canzone che le piace, se sente un buon profumo, quando riceve una carezza, Giulia è visibilmente più tranquilla.
Maura vuole convincerla ad aprire la porta che la tiene distante, le legge i libri che le piacevano, riprende Harry Potter dal punto in cui la figlia aveva lasciato il segnalibro. Porta uno stereo in camera e le fa ascoltare la sua musica preferita, le fa vedere i film. Anche in pieno inverno, va in ospedale con le maniche corte per farle sentire l’odore della sua pelle. Imita le sue posture nel letto, sta ferma come lei, per imparare quali sono i punti dove massaggiarla per farla stare meglio.
Con il marito Renzo tenta di tutto, le pratiche consolidate come la logopedia e quelle meno consuete, come la riflessologia e i massaggi shiatsu. Vendono il cascinale in collina che avevano ristrutturato e sempre sognato, le cure sono molto costose. L’attaccamento alla figlia li accomuna, altre situazioni intervengono ad allontanarli. Hanno un modo opposto di affrontare la malattia di Giulia: Maura coinvolge gli amici, invita in ospedale i compagni di scuola, esterna i sentimenti e le preoccupazioni; Renzo si chiude, non vuole condividere il dolore con nessuno. Sta al capezzale della ragazza, l’accudisce con una tenerezza immensa, ma considera gli altri degli estranei.
Lui domanda ai medici i particolari della condizione di Giulia, Maura no, non vuole conoscere i dettagli “tecnici”. Con un lavoro lungo e certosino, mette a tacere la sua parte razionale, quella che la porterebbe a mollare. Si crea una sorta di realtà parallela, come se la felicità del passato non fosse mai esistita, le gioie sono quelle che può regalarle la vita attuale. A volte le manca la forza, al mattino, di andare in ospedale. La sprona sua madre, la nonna di Giulia, solida donna di origine friulana, senza fronzoli e smancerie, che non le permette di adagiarsi.
Nel tragitto da casa al nosocomio, Maura si sforza di non pensare, impara canzoni a memoria per tenere occupata la mente e non sprofondare nella paura. Ogni volta che entra nella camera della figlia può esserci una brutta sorpresa ad attenderla. Giulia, di tanto in tanto, pare migliorare in modo impercettibile, poi subentra una repentina ricaduta. Emorragie, crisi epilettiche e infezioni si susseguono, subisce dodici operazioni. È un continuo saliscendi di speranza, disillusioni e sconforto.
Maura è una donna come tante, impreparata come sarebbe ognuno di noi a reggere un dramma inimmaginabile per chi non l’ha vissuto sulla propria pelle. Non è sostenuta dalla fede, non chiede miracoli, soltanto la tenacia di andare avanti e fare la cosa giusta.
Giulia diventa maggiorenne in una clinica di lunga degenza, la mamma le organizza una festa con palloncini e stelle filanti, decine di persone si radunano nella sua stanza, le portano regali. Dopo un anno in ospedale speravano fosse accolta in un centro all’avanguardia nel trattamento delle persone in coma, ma c’era soltanto un posto disponibile ed è toccato ad un paziente con maggiori probabilità di guarigione. Logico, ma così crudele! «Piedi per terra e testa sulla luna», è l’incoraggiamento del primario, dopo avere spiegato che non può accettarla perché ancora troppo grave.
Nel luogo dove ha compiuto diciott’anni, Giulia apre quella famosa porta, un venerdì di febbraio del 2011, in un giorno di pioggia. La mamma le tiene la mano come sempre, e lei lentamente l’accarezza, poi su richiesta ripete il gesto. Parla anche, con difficoltà terribili, ma torna a far sentire la sua voce dopo sette anni di silenzio.
Nel tempo trascorso da quel giorno, Giulia ha fatto grandi progressi, è tornata a casa, dopo un anno e mezzo in un centro di riabilitazione, dove le hanno insegnato a riappropriarsi del quotidiano. E poi ci sono stati quei viaggi, a Barcellona e New York, ci sono le giornate al mare e le canzoni rap.
Un pensiero più di tutti colpisce nel libro: «La nostra normalità era il dolore. Dicono che sia un gran maestro per gli uomini, che sotto il suo soffio crescano le anime, me l’ha detto una volta una mia amica, citando non so quale donna filosofo. Ma sono le cose che si dicono. Io che l’ho conosciuto penso che sia facile parlare. La sofferenza definisce il nostro sguardo, non quello che guardiamo. E ti può anche rendere più profondo, sarà pur vero, ma solo se non ti distrugge, se non ti annienta tutto quello che hai dentro, se non ti cancella la forza di credere che vale la pena vivere anche in questi momenti, che vale sempre la pena».
Maura è riuscita a non farsi annientare, ma non può dimenticare quanto è stata dura. Quanto è stato difficile, in alcune occasioni, interfacciarsi con personale ospedaliero indifferente e arido, non può scordare quando è stato necessario alzare la voce e arrabbiarsi per essere trattate con umanità.
Ci sono anche, per fortuna, gli amici vecchi e nuovi, i professionisti della sanità che svolgono il loro lavoro con sensibilità e coscienza, i gesti di inaspettata comprensione degli sconosciuti, come il tossicodipendente che sopravvive nei pressi dell’ospedale, che un giorno le dice «Sorrida e sia felice, perché quando lo fa è più bella», oppure il gruppo di chiassosi zingari che, in segno di rispetto, si zittiscono quando Giulia esce dalla sala operatoria.
Cosa avrebbe fatto Maura se Giulia le avesse fatto capire di volersene andare? Lei non ce l’avrebbe fatta a “staccare la spina”, ma Giulia non gliel’ha mai chiesto, non ha mai smesso di combattere. Era una tosta anche prima dell’incidente, ed è incredibile come il carattere di una persona rimanga tale anche quando non è cosciente.
L’amore non toglie la vita, il titolo del libro, è in sé un inno contro l’eutanasia, eppure Maura è ben lungi dal giudicare chi compie una scelta opposta alla sua, conosce troppo bene e troppo da vicino la sofferenza, ha troppo rispetto per il dolore.
Rimane però un grande punto di domanda, per Giulia e per le tante persone con gravissime disabilità: cosa ne sarà di loro quando i familiari non potranno più accudirle? Maura pensa a piccole comunità alloggio sparse per l’Italia, legate al territorio e collegate ad un centro di assistenza, nelle quali sia possibile dividere i costi delle cure e di conseguenza contenere le spese. «Forse è un’utopia. Ma senza sogni non si vive», è l’ultima frase del libro. Ci auguriamo sia di buon auspicio.