Mattinata estiva a Milano, in zona San Babila. Incontro Ambrogio, che è nato a Milano, dice. Parla in milanese, mi sembra. È simpaticissimo e vuole regalarmi un braccialetto tribale. Io sono convinto che voglia appiopparmi qualcosa dal suo fornito armamentario di oggettini da fidanzati. Lui è nero e io sono fuori da un bar con la bella Pamela. Il bar ha un gradino all’entrata, i miei sono dentro e a me è stato chiesto se avessi voluto mettermi a un tavolino. Se non fosse stato per quel gradino, sarei entrato e non avrei incontrato quella sagomaccia di Ambroeus.
Si dirà che prendo la vita con filosofia, perché enfatizzo un ostacolo senza il quale non avrei incontrato Ambrogio, milanese come il risotto allo zafferano dei cinesi. Quella mattina non avevo voglia di mettermi a discutere per spiegare al gestore che avrebbe dovuto avere almeno una rampa rimovibile e il campanello all’entrata, per poterlo chiamare. Qualche mattina prima, invece, ero stato più battagliero, ma un passo per volta.
So per certo che molti negozi di quella zona hanno la rampa per fare entrare le persone con disabilità. Però non vedo campanelli per chiamare il personale per metterla. E se non c’è, come entro per chiedergli di metterla? Un paradosso in termini per chi si muove senza accompagnatore, come invece faccio io. Il campanello, ben segnalato, abbatte le barriere quasi quanto la pedana rimovibile. Senza campanello si offende la dignità della persona, perché non si riconosce la sua autonomia. Campanello all’entrata oppure sulla porta e sempre personale pronto.
Mia madre mi dirà dopo che nel bar le avevano detto che se avessi voluto entrare avevano la pedana pronta. L’hanno detto a lei, una volta dentro. A noi, fuori, niente. Solo l’invito ai tavolini, dove la consumazione costa di più. Sono taccagno. Non spendo parole per commentare.
Giorni prima cercavo un ristorante nella zona sud di Milano. Qualcosa di rustico. Investigo in internet e mi metto al telefono, perché dove l’accessibilità non è indicata, è meglio sincerarsi e dove è indicata, è meglio sincerarsi lo stesso, è una regola di vita.
Chiamo, ristorante in zona Barona. Una vecchia struttura riadattata dove presentano buona cucina casereccia. Chiedo dell’accessibilità e mi dicono che hanno gradini all’entrata che mi faranno superare con la forza delle braccia del loro personale. Gli spiego che con la mia carrozzina non si può fare, e mi riservo la considerazione che non mi va di farlo. In vena di combattimento, gli comunico che avrebbero dovuto munirsi per legge da tempo di pedana rimovibile.
Non so se la mia conoscenza dei fatti li inquieti o la mia promessa a diventare fedele cliente li alletti, mi annunciano che ne avevano parlato e che entro qualche mese se ne muniranno. Anche se non potranno fare nulla per i servizi igienici, dato l’ambiente datato. Verificherò nei prossimi mesi, ma l’inadeguatezza di tanti locali a Milano è una constatazione che, secondo me, vede il Comune in affanno nel far rispettare la legge.
L’accessibilità cittadina sta invero migliorando. Tuttavia, la mia impostazione scettica si sorprende quando telefono in un posto e m’informano di essere provvisti di rampa. In zona Lorenteggio mi hanno detto: «Guardi, è tutto in piano, abbiamo perfino i gabinetti dove si può entrare». Poi ci sono stato ed era vero. Ma non ho provato i servizi igienici, che magari recavano una scritta diversa.
Storia che vale tutta questa riflessione è quella di un ristorante aperto da poco lungo il Naviglio Grande. All’inizio dei Navigli, dove una volta c’erano le fabbriche. Locale alla moda, ottima carne e buon servizio. Tutto in piano, tranne quello sbalzo millimetrico all’entrata che ci faccio caso solo io. Ci sono stato due volte e in ognuna di esse ho avuto la stessa impressione straniante.
Entro la prima volta, chiediamo un tavolo e vedo nel cameriere un lampo d’imbarazzo. Ne leggo che come persona che si muove in carrozzina mi deve essere riservato un posto dedicato. Ma non ne afferro il fine. Non intravedo una vera e propria discriminazione, un volermi relegare nell’angolino per non disturbare la vista degli altri clienti. E neppure scorgo una decisiva cortesia nei miei confronti, un volermi riservare un posto dove essere a mio agio dall’andirivieni dei corsaioli avventori.
La seconda volta idem, ma ho più tempo di riflettere. E allora capisco: il personale mi cerca un posto dove la voluminosa borsa che mi porto appesa allo schienale della carrozzina non sia d’ingombro per il passaggio delle persone, costringendo loro a diffuse contorsioni e me a subirne i tamponamenti.
C’è della logica: l’accessibilità è fatta di funzionalità e non è onesto pretendere che si applichi in una direzione sola. La struttura sia pure accogliente e la persona con esigenze specifiche si renda partecipe dell’accoglienza. L’accessibilità è biunivoca, altrimenti è parziale.
Esco. Abbiamo mangiato bene, vista Naviglio. Mi sento lieto e quando supero la soglia dell’uscita mi arriva una bastonata sui denti. Non il cameriere che mi raggiunge col conto, ma lo sbalzo all’entrata. È microscopico, ma non abbastanza da impedire alla carrozzina di sobbalzare e al comando che ho davanti alla bocca per guidarla di sbattermi sulle gengive. Un dolore pazzesco.
Tutti dettagli dell’accessibilità, dal mio punto di vista.