Gerald Mballe ha solo vent’anni, eppure quando parla dimostra una maturità e idee molto chiare che vanno ben oltre la sua età anagrafica.
È in Italia, come rifugiato politico, da circa due anni, ma il suo “viaggio verso un futuro” è iniziato ancor prima. Parte, senza certezze, da Kolofata, città nell’estremo nord del Camerun al confine con la Nigeria; oltre 2.000 chilometri di frontiere dove i tagliagole, affiliati allo Stato Islamico, tendono a sconfinare sempre più spesso, saccheggiando e uccidendo. Proprio la zona frontaliera tra Nigeria e Camerun è considerata uno dei rifugi della setta fondamentalista, luogo di scorribande e attentati terroristici.
«Vivevo sempre sotto tensione – ricorda Gerald – poi un giorno, ma l’ho capito realmente solo in seguito, mio zio mi ha salvato la vita, permettendomi di sognare un futuro. Mi ha affidato ad un signore a lui vicino, e insieme ad altri tre ragazzi abbiamo iniziato un lungo viaggio, lungo il quale incontravamo sempre nuove persone che, come noi, sognavano un futuro diverso. Non sapevo quale fosse la destinazione, ma che certamente sarebbe stata lontana dal mio Paese e dalla mia famiglia. Entrammo in Nigeria, poi nel Niger fino all’Algeria, spostandoci con pullman, treno, macchina e motociclo, sul quale ricordo bene di avere viaggiato, in tre persone, per oltre venti ore, ma anche su barche, attraversando fiumi, e per lunghi tratti a piedi, con la sola forza delle nostre gambe. In Algeria il mio viaggio è proseguito senza quella persona alla quale mio zio mi aveva affidato; con un gruppo siamo arrivati in Marocco, dove sono rimasto per sette mesi, fino a quando con alcuni di loro siamo giunti in Libia, a Sabrata. Dopo circa un mese un signore mi disse che sarei dovuto andare a fare un lavoro insieme ad altri ragazzi: dal retro di un furgone chiuso, mi sono ritrovato all’improvviso in mezzo al mare, su un barcone con altre cento persone. Vedevo gente piangere, mamme impaurite con bambini piccoli, altri che vomitavano: avevo paura anche io. Dopo tre giorni, agli inizi di novembre del 2015, sbarcammo a Pozzallo, in provincia di Ragusa, tra Carabinieri e tante persone che ci dicevano: “siete salvi”. Non capivo ancora l’italiano, ma sentivo, dentro di me, che quel viaggio di incertezza era finito, che era giunto il momento di poter iniziare una nuova vita. Dopo quattro giorni un pullman, eravamo una cinquantina, ci portò a Settimo Torinese: faceva freddo. Avevo voglia di studiare, di andare a scuola: ero determinato nel volere imparare la lingua del Paese che mi aveva ospitato».
«Al Centro di Accoglienza – racconta ancora Gerald – per i primi sei mesi, in quanto ancora minorenne, mi affiancarono un educatore, Luigi Petrillo: è lui che mi introdusse, da subito, all’interno del Team Special Olympics “Pro Settimo & Eureka”, attraverso il quale ho ripreso a giocare a calcio [Special Olympics è il movimento internazionale dello sport praticato dalle persone con disabilità intellettiva, N.d.R.]. Ho iniziato a farlo in una squadra unificata, composta da atleti e partner, rispettivamente con e senza disabilità intellettiva, che giocano insieme, nella stessa formazione [è il “Play Unified”, progetto di Spcial Olympics, N.d.R.]. In Camerun le persone con disabilità sono messe da parte, non gli fanno fare niente: è bellissimo vedere queste stesse persone che, con le proprie difficoltà, ci mettono una grande forza e determinazione in tutto quello che fanno, vogliono giocare, hanno voglia di vincere. Mi sento molto vicino a loro, perché abbiamo la stessa volontà di lottare per sentirci accettati dalla società, inclusi in un mondo in cui la diversità e le differenze culturali non sempre sono viste come una risorsa, ma spesso con pregiudizio. Ancora oggi mi capita di essere discriminato, come l’altro giorno, al bar, quando ho sentito dire, riferendosi a me, che non era il caso di sedersi vicino ad una persona di colore».
«Sono convinto – conclude Gerald – che in futuro anche il mio Paese di origine possa trovare, attraverso lo sport, un’opportunità concreta di inclusione. Il calcio è un linguaggio universale, un mix di colori che può cambiare il modo di vedere la disabilità e contribuire, in questo senso, ad una crescita culturale. Il mio sogno l’ho già realizzato: voglio restare in Italia, imparare dagli altri e continuare a studiare per dare il mio contributo. Ho conseguito il diploma di scuola media inferiore e adesso sto frequentando il quarto anno di liceo. Ho studiato anche per diventare volontario della Croce Rossa Italiana, iniziando ad aiutare famiglie bisognose nella distribuzione di cibo, così come nella raccolta alimentare. Dopo avere ricevuto il permesso di rifugiato, ho iniziato a prestare Servizio Civile all’interno del Centro di Accoglienza che mi aveva precedentemente ospitato. Oggi sono mediatore culturale e voglio restituire alle persone che mi hanno accolto, agli italiani, tutto ciò che mi hanno dato, aiutando i nuovi che arriveranno ad integrarsi, per garantire loro, come l’ho avuta io, un’ opportunità di vita».