Giunto all’età nella quale mangiare, bere, dormire e andare ragionevolmente di corpo – il tutto senza troppe complicazioni e farmaci – rappresenta il massimo del possibile, se qualcuno mi chiedesse, in una sorta di “giudizio universale privato”, cosa ho fatto di buono nella mia vita, potrei salvarmi in corner, dicendo: «Ho fatto il caregiver», confidando a quel punto di essere assolto da ogni umana mancanza.
Come tutte le carriere, anche quella di caregiver ha un inizio preciso, per me individuabile nella nascita della mia seconda figlia. A dire il vero sarebbe necessario spostare la data in avanti di alcuni mesi, perché la malattia rara da cui è affetta si palesò lentamente e subdolamente.
Ad oggi ho maturato trent’anni di anzianità inutili ai fini pensionistici, perché il caregiver non gode di previdenza pensionistica e anche perché da caregiver non si va mai in pensione!
A dire il vero più che caregiver dovrei definirmi “co-caregiver”, svolgendo mia moglie la metà abbondante della prestazione assistenziale, relegando la mia attività nelle ore notturne a mo’ di pipistrello.
La notte porta consiglio, direte voi, ma soprattutto la notte, se si è svegli, lascia tempo per pensare e il troppo pensare a volte intristisce e induce a depressione, per cui è meglio scrivere, esercizio che catarticamente libera da ogni pena.
I greci, maestri di filosofia, andavano a teatro per vedere qualche bel drammone ricco di parricidi e di incesti e, terminato lo spettacolo, se ne tornavano a casa con animo lieve.
Caregiver ovvero colui che si prende cura
Ma di chi si prende cura? Di un genitore di un fratello o di una sorella, di un figlio. A volte di una persona al di fuori della famiglia.
Colui, o meglio colei, che impersona il caregiver per antonomasia a mio modo di vedere è chi assiste un figlio. “Colei” perché donna nella stragrande maggioranza dei casi.
Assistere un genitore o un congiunto di pari età rientra più facilmente nell’ordine temporale delle cose, ma assistere la propria figlia di trenta/quarant’anni più giovane comporta una dose ulteriore di dolore.
La prima dolorosa e necessaria accettazione è quella di non poter guarire chi è affetto da una patologia per la quale non esistono terapie risolutive. È un’accettazione difficile, ma indispensabile: chi si illude di poter guarire l’inguaribile a un certo punto si scontra con la realtà oppure si estrania pericolosamente da essa.
Non poter guarire non significa non poter curare, non poter avere cura della persona malata, anzi rende l’azione di cura indispensabile per avere la miglior vita possibile.
Per un’efficace azione di cura, quali cose deve saper fare un caregiver, sia pure imperfetto come imperfetta è la natura umana? Nessuno nasce o studia da caregiver, ma tutti possono diventarlo. La prima virtù indispensabile è il rapporto affettivo. Certamente è possibile prendersi cura di una persona estranea e in questo caso è sufficiente una sympatheia, un “soffrire assieme”, ma un vero rapporto affettivo rende possibile cose altrimenti precluse, prima fra tutte la resilienza.
Resilienza ovvero trar forza dalle avversità della vita
Il caregiver privo di resilienza è un po’ come un podista al quale a un certo punto della gara manca il fiato. Non regge alla distanza e la distanza (il tempo che passa) si fa fatalmente sentire.
Il resiliente si scontra come tutti con le difficoltà, ma le affronta con uno spirito di sfida. In altre parole, maggiori sono le difficoltà, maggiore è il suo impegno a superarle. E spesso ci riesce.
È la resilienza che permette di resistere indenni o quasi a dieci, venti, trent’anni di avversità, piegandosi sotto i colpi di un destino avverso, per poi rialzarsi, senza spezzarsi mai.
Potremmo definire la resilienza come una resistenza con lo sprint ovvero una negazione di quel principio della fisica che vuole la reazione uguale ma contraria all’azione.
Chi cura il caregiver?
Può sembrare un gioco di parole ma chi si prende cura di colui che cura? Oppure i caregiver, abituati come sono alla vita grama, sono praticamente indistruttibili e non abbisognano mai di alcuna cura ?
La verità è che i caregiver sono più fragili dei pari età, anche se stringono i denti e non lo danno a vedere. Non lo dico io, ma la dottoressa Elisabeth Blackburn, Premio Nobel per la Medicina nel 2008, secondo la quale i caregiver hanno un’aspettativa di vita più beve dei pari età (fino a 17 anni di meno!). Strano io sia ancor vivo!
E perché? Perché sono impegnati per un numero di ore esagerate in un’attività fortemente usurante (orari impossibili, poco sonno, poco relax ecc), si nutrono male, vanno soggetti a frequenti incidenti sul lavoro (ad esempio problemi alla schiena) e fuori di esso (incidenti stradali dovuta a stanchezza o distrazione) e soprattutto perché curando altri non curano se stessi.
Virtù e difetti del caregiver
Dopo la resilienza, la prima virtù del caregiver è la polivalenza. Notevole, infatti, è il numero delle figure professionali che il caregiver riassume in sé: medico rianimatore, infermiere professionale, dama di compagnia, donna delle pulizie, avvocato civilista, public relation man (o woman), giudice conciliatore, manutentore di apparecchiature medicali, fiscalista e alcune altre che al momento mi sfuggono.
Per evitare problemi legali (abuso di professione altrui, specie quella medica), il caregiver esercita il suo sapere nel segreto familiare, a persiane ben chiuse.
E i difetti? Uno solo: l’essere umano e pertanto esercitare tutto quello che si è sopra scritto in maniera imperfetta e parziale. Se così non fosse, invece di caregiver si chiamerebbe “carerobot” e perderebbe la propria connotazione umana.
Amici e nemici
Incominciamo dai nemici. Il nemico n° 1 del caregiver è la burocrazia, che ostacola diabolicamente la sua azione di cura. Esagero? No, purtroppo è vero: Stato, Regioni, ASL e talvolta i Comuni sembrano decisi a non lasciare in pace il caregiver, studiando e applicando provvedimenti farraginosi, che a parole dovrebbero aiutarlo, ma che alla prova dei fatti si rivelano di ostacolo.
Altri nemici dei caregiver sono quei politici che da vent’anni non riescono a mettersi d’accordo per un provvedimento legislativo in materia, semplice e adeguatamente finanziato, che sia davvero d’aiuto.
E gli amici? Tutte – ma ahimè non sono tante – le persone di buona volontà che danno una mano, quando e come possono, affinché anche il povero caregiver abbia il tempo di bersi un caffè e di andare in bagno.
L’immagine simbolo del caregiver
Non può che essere il mulo da soma, con tanto di basto e gran carico, animale frugale, assai intelligente, robustissimo, che lavora indefessamente in collaborazione con il suo proprietario e che a suo tempo resse il peso di gran parte della civiltà contadina.
Così è anche il caregiver: mai stanco (o almeno evita accuratamente di mostrarsi tale), sempre propositivo nei confronti del suo assistito, bisognoso di poco (specialmente di poco sonno) per campare.
Quanti caregiver esistono?
Visto il paragone con il mulo, potremmo chiederci quante razze (tipi) di caregiver esistano. Fondamentalmente una sola, con infinite varianti.
Ecco dunque il “caregiver scientifico” ovvero colui che, senza rinunciare alla propria umanità, ha elevato l’atto di cura a una dimensione esatta, scientifica.
All’opposto è situato il “caregiver passionale”, che arricchisce di grande sentimento tutto ciò che fa a favore dell’assistito.
Nel mezzo c’è il “caregiver veramente familiare”, un po’ alla buona, che supplisce con tanta buona volontà ai difetti suoi e anche a quelli degli altri. È questa, fortunatamente, la razza di caregiver prevalente e che, contrariamente al mulo, riesce anche a riprodursi e a perpetrare l’atto di cura.
Perché il caregiver fa il caregiver?
Questa è una domanda insidiosa, con molte possibili risposte. Il caregiver fa il suo mestiere, anzi adempie alla sua missione, perché il prendersi cura di un familiare fa parte del suo DNA, una sorta di mutazione genica che ha resistito a secoli di egoismo e di edonismo.
Il caregiver apprende spesso i rudimenti del prendersi cura con il latte materno e sovente ottime caregiver generano altrettanto valide caregiver figlie e qualche volta anche figli.
Il caregiver considera l’atto di cura come un qualcosa di connaturato alla natura umana e l’esercitarlo gli sembra la cosa più naturale del mondo, anche se di certo non è la più lieve delle incombenze.
Come difendere il caregiver?
Vista la grande utilità familiare e sociale dei caregiver, cosa possiamo fare per difenderli?
Abbiamo già detto che la prima difesa è fare in modo che possano lavorare in pace. Come seconda cosa potremmo proporre alcune piccole varianti normative previdenziali, applicabili senza che i nostri rappresentanti istituzionali si alambicchino troppo il cervello e senza devastare i conti dell’INPS. Infatti, un po’ di pensione (aggiuntiva?) non guasterebbe, sarebbe il semplice riconoscimento della socialità dell’atto di cura. Alcune Regioni riconoscono una sorta di assegno di alcune centinaia di euro e si potrebbe pensare anche a detrazioni fiscali.
Si difende poi il caregiver anche alleviandone la fatica tramite validi servizi infermieristici e sociali di supporto, in modo che possa avere un minimo di tempo per un brandello di vita privata.
Conclusioni
Abbiamo intitolato questo scritto Piccolo manuale dell’imperfetto caregiver credendo di essere nel vero. Sul fatto che sia “piccolo” credo siamo tutti d’accordo. “Manuale” è ad imitazione di quello disneyano delle celebri “Giovani Marmotte”. “Imperfetto”, infine, sta per umano.
Se poi avete ancora qualche dubbio sul significato di “caregiver”, credo dobbiate prendere in considerazione il fatto di averne una personale necessità. Buona fortuna!