Vorrei cercare, con il mio consueto approccio sistemico, di condividere una riflessione secondo la mia visione di docente di sostegno nato con l’integrazione scolastica delineata nella Legge Quadro 104/92 (è proprio nel ’92 che, in veste di docente con contratto a tempo indeterminato, per scelta, ho seguito il corso polivalente).
Spazierò dalla “generazione zero”, i nostri studenti della cosiddetta “generazione digitale”, all’insegnante inclusivo come persona che sul campo agisce, il cosiddetto intellettuale in azione. Cercherò di elaborare il mio pensiero e di riflettere su come si possano includere oggi gli studenti con disabilità nelle scuole superiori, avendo come parametro sia il futuro – alias Progetto di Vita – sia il presente (fra i due “parametri” spesso vi è un gap incolmabile che va messo al servizio del processo di inclusione). Se il ragazzo con disabilità non vive il suo presente nei social, come può integrarsi nel gruppo dei pari? Come può vivere situazioni alla pari? Come può dinamizzare se stesso nell’oceano di informazioni in cui viene immerso? Digit divide?
Partirò dal presente. Quest’ultimo è da un lato potentemente e quotidianamente caratterizzato dall’estensione del proprio Io nel mondo dei social da parte di ogni adolescente (bisogno di intimità da estendere ovunque, necessità di essere riconosciuto dagli altri hic et nunc [“qui e subito”, N.d.R.]), che rappresenta un elemento esistenziale per ogni ragazzo/a ; dall’altro lato esiste il fatto che ogni alunno-adolescente, frequentante le superiori, si trova ad impattare costantemente con un apprendimento che si attua secondo un modello deduttivo, concettuale e sequenziale, che a scuola, tutt’oggi, si vive nella quotidianità. Non sarò, per forza di cose, breve!
È sotto gli occhi di tutti che si chiede a ogni cittadino di sapersi adattare costantemente e reiteratamente ai cambiamenti e mutamenti che la nostra società di appartenenza propone, ma come dobbiamo allenare i nostri studenti che presentano talune difficoltà? Ad esempio, se sono “semplicemente” un po’ lenti nell’apprendimento di nozioni e acquisizione di conoscenze, didatticamente strutturate, come posso offrire una didattica inclusiva? Oggi si parla di competenze, ma alla base di ogni competenza è indispensabile possedere anche delle solide conoscenze. Come conquistarle?
Il mandato sociale della scuola è divenuto polivalente, la classe appare come un caleidoscopio ed è poliedrica, oltre che articolata, il modello educativo è divenuto multiculturale, oltre che multidimensionale, i docenti non ce la fanno più a fronteggiare dinamicamente il “tutto” e ci si rifugia in compiti circoscritti («voglio fare solo il mio»), onde non essere travolti da quanto ci chiedono le nuove generazioni e la società nel suo complesso. Per non parlare della politica, visto che siamo in campagna elettorale, che allorquando c’è qualcosa che non va nel Paese, pensa bene di partorire idee-norme-direttive che sollecitano la Scuola… a costo zero.
In ogni scuola ci sono una miriade di referenti a cui si delegano delle funzioni specifiche: referente per la salute, per l’orientamento (in ingresso, in itinere, in uscita), per il bullismo e il cyberbullismo, per l’ASL (Alternanza Scuola-Lavoro), per i viaggi di istruzione… Deleghiamo tante funzioni ai colleghi tecnici… Ma la nostra responsabilità educativa, da spendere semplicemente durante le ore di lezione con la classe, dove è andata a finire? L’insegnante specializzato è ancora quella figura professionale indicata nei programmi dei corsi di specializzazione del 1986?
Personalmente a scuola non ho ancora abdicato al mio ruolo di adulto, né al mio ruolo di colui che si occupa di pedagogia pratica, per abbracciare la mera pedagogia speciale. Non ho ancora delegato la mia responsabilità educativa rispetto ai problemi vitali ed esistenziali dei miei alunni. Sono ancora una persona che si pone delle domande, che si interroga e interroga e… dà fastidio.
Oggi anche i colleghi tendono a non volersi più interrogare su chi hanno davanti come alunni, ma cercano solo risposte pratiche al loro da fare con la classe, a come dover operare in aula. I più illuminati chiedono questo, ma nella stragrande maggioranza è indispensabile che l’insegnante specializzato, dopo avere assistito al modus operandi del collega, intervenga – in camera caritatis e vis à vis dietro le quinte – per suggerire che forse si può modificare il modo di offrire la lezione, realizzando una didattica inclusiva che veda tutta la classe, disabile in primis, protagonista del suo apprendimento.
È faticoso lavorare cercando nella propria realtà lavorativa, quasi quotidianamente, una mediazione fra mentalità del docente curricolare e neo modalità per offrire “ausili” volti a instaurare un trend più dinamico per fare lezione… coinvolgendo e facendo partecipare alla cosiddetta “didattica attiva” tutti i nostri studenti.
C’è forse il desiderio di non volersi più spendere per l’altro, dietro all’involuzione della figura dell’insegnante specializzato? C’è la crisi del mondo adulto – docenti ed educatori – dietro alla delega all’insegnante di sostegno? In passato, e l’immagine evocativa mi piaceva, non si parlava forse di insegnante specializzato come di figura di sistema? A tal proposito evidenzio come risultino essere necessarie funzioni di mediazione, sia in termini di relazioni interpersonali che didattici (con i colleghi, i genitori, gli “educatori”, i ragazzi della classe). Al contempo, però, osservo anche il mio incedere lavorativo e mi scopro, spesso, uno specialista dell’improvvisazione, volto a fornire allo studente con disabilità competenze neutrali e oggettive. Mi sto riducendo a coltivare il mio orticello?
La progressiva delegittimazione sociale della figura professionale del docente, gli ultimi fatti di cronaca lo indicano con forza – docenti picchiati – ha fatto sì che l’insegnante svuotasse costantemente il proprio ruolo della componente intellettuale, arricchendola di componente tecnica. In questo percorso di progressiva perdita di legittimità sociale, l’insegnante specializzato è ancor più esposto, in quanto, come risaputo, pur facendo parte del Consiglio di Classe, non detiene il potere del voto in una materia e quindi cerca di compensare con un’operazione mentale lineare: sentirsi utile per il “suo” ragazzo con disabilità, non riuscendo a convincere né i colleghi né quindi la classe, che anch’egli è un docente di quella classe. Subentra tutta l’esigenza di rivincita e rivalsa nei confronti di tale declassamento che nelle neogenerazioni di insegnanti specializzati viene spesso vissuta come l’esigenza di far vedere che si fa qualcosa di utile per il “proprio” alunno con disabilità. Si è persa la voglia di vedere il tutto (la vita della persona) e ci si limita alla parte (la buona didattica), con buona pace interiore dei colleghi curricolari che non ne vogliono sapere di essere inclusivi e che semplicemente dicono: «Occupati tu del ragazzo, fai tu». Scatta così la delega, che viene abbracciata dal cosiddetto “esercito della salvezza” il quale, figlio della buona scuola, vuole salvare la didattica, ovvero, di fatto, il sistema scolastico così come è organizzato.
Mi spiego meglio. In ogni organizzazione lavorativa è necessario che il sistema apprenda, ovvero cresca, al fine di migliorare il “servizio offerto”, ma a scuola, nonostante vi siano buone prassi realizzate, l’organizzazione è resistente, ovvero la scuola non progetta for all [“per tutti”, N.d.R.], né si adegua alle esigenze di personalizzazione e individualizzazione del percorso formativo. Indi, scatta il meccanismo della delega all’insegnante specializzato.
Gli adulti-docenti spesso si considerano singole entità che operano quasi da liberi professionisti in àmbito organizzativo, tant’è vero che ancora non è passato il concetto di équipe orientata al compito, né tanto meno di presa in carico delle persone, studenti con disabilità e non. Si parla tutt’al più di disciplina e didattica, non di maieutica e/o di pedagogia. Pare che degli obiettivi educativi – dalla cui attuazione discende la possibilità di porre in essere un itinerario formativo che ponga le basi per la realizzazione del Progetto di Vita -, dopo averli enunciati e scritti sulla carta, non se ne debba più parlare. Ciò che conta è solo se può o non può raggiungere gli obiettivi minimi nelle varie materie. No, a questa visione minimalista non mi sono ancora adeguato, né allorquando incrocio giovani colleghi, né quando lavoro con i docenti di sostegno “veterani”, che si sono appiattiti a svolgere il loro ruolo in aula al servizio di una strategia “riduzionistica”, volta a permettere all’alunno con disabilità di ottenere un bel voto, senza pensarlo come adulto (tutto si realizza e si consuma nel presente senza alcun progetto a lungo termine, senza alcuna visione).
Come mai non si pensa al giovane ventenne che, uscendo dalla scuola secondaria di secondo grado, dovrà esplicitare il ruolo di persona e di cittadino? Per economia mentale! Per non far la fatica di pensare, riducendosi al fare “qui e subito”.
La domanda che mi pongo è questa: ma se lavoro solo con la parte del ragazzo che qualifico come studente, la persona in toto chi la prende in carico? Chi si occupa di prendersi cura delle esigenze specifiche di cui è portatore il nostro ragazzo e che noi docenti registriamo fra i banchi di scuola?
Insegnante specializzato, assistente ad personam, genitori, chiedono gli uni agli altri di fare “cose”, ma non operano in sinergia d’intenti, in quanto troppo spesso non ci si pone intorno al tavolo di lavoro e non ci si chiede: «Stante così la situazione, dove vogliamo andare insieme?». Non è una domanda da poco, ma ci vuole innanzitutto desiderio di fare e di confrontarsi con essa in chiave intellettuale, interrogandosi non solo sull’operare concreto. Quante volte mi sento dire: «Ma siamo pragmatici!», che sta alla base del riduzionismo… «Non parliamo, dimmi, tu che sei l’insegnante specializzato, cosa devo fare e stop!».
Ecco dove sta il problema: stop! Fermiamoci all’eseguire, non pensiamo insieme. È faticoso confrontarsi intorno a un tavolo di lavoro… Non facendo squadra, in genere, così si pongono le basi affinché emergano le “frizioni relazionali”, sia intraistituzionali sia interistituzionali (tutti chiedono all’altro: la scuola ai genitori; i genitori agli specialisti; gli specialisti – quando appaiono – si limitano a non schierarsi, ovvero non concorrono a delineare un reale punto della situazione da cui partire, con un realizzabile percorso formativo a tutto tondo con lo studente disabile, la sua classe e la sua famiglia).
Proporre che il contesto diventi nella pratica quotidiana inclusivo è quasi “un’eresia” e quindi il docente curricolare si chiede: «Ma perché devo pensare a tutti i miei studenti, meglio pensare alla classe meno uno: il soggetto disabile» (oggi, nel biennio, le classi, al loro interno, oltre a vedere la presenza delle altre due categorie di BES [Bisogni Educativi Speciali, N.d.R.], vedono la presenza anche di quattro studenti con disabilità).
Torniamo all’insegnante cosiddetto di sostegno. In veste di docente di sostegno, vivo e assisto a situazioni che mi destano talune perplessità e che desidero condividere.
Sicuramente l’insegnante specializzato è colui che si occupa di integrazione scolastica, ma non deve divenire l’esperto di innumerevoli saperi (non può essere vocato a fare il tuttologo); certamente è necessario conoscere tecniche e metodologie, strumenti e strategie, che favoriscono le modalità di apprendimento e di verifica degli stessi. A fronte di tale situazione, è necessario saltare gli steccati, scendere a compromessi, avere una situazione negoziale sempre aperta e logorante – con i colleghi, con i genitori – ma l’importante è non farsi schiacciare a fare il mero insegnante di ripetizioni individualizzate all’esterno della classe o, se va bene, all’interno dell’aula, ma in un angolo riservato, rigorosamente a parte.
Appare prezioso ricercare un equilibro fra acquisizione dei nuclei fondanti delle discipline (istruzione) – la cui accessibilità può essere facilitata dall’uso delle ICT [tecnologie dell’informazione e della comunicazione, N.d.R.] – e l’accompagnare il nostro studente con disabilità lungo un cammino che lo porterà ad essere un giovane adulto e cittadino del mondo.
Di fatto i colleghi vogliono la ricetta pronta e il leitmotiv di fondo è: «Siamo pratici, semplifichiamoci la vita, non perdiamo tempo a parlare», «non chiacchieriamo: cosa devo fare?». Ma prima si deve conoscere e per conoscere chi ho davanti, con le sue varie sfaccettature ed esigenze, è necessario confontarcisi. Qui, però, emerge un’urgenza: i docenti vivono il Consiglio di Classe come un’équipe di lavoro? Hanno una preparazione psicopedagogica atta a facilitare la comprensione secondo una logica circolare e non lineare? Sono capaci di ascoltarsi o solo di parlare? Desiderano realmente mettersi in sintonia con l’altro diverso da sé?
Occorre sicuramente, come si diceva in passato, riprenderci la pedagogia, non delegare ai sedicenti esperti la possibilità di concorrere a far crescere – insieme a noi adulti docenti – altri esseri umani; dobbiamo rilanciare la sfida educativa anche attraverso una didattica inclusiva.
La sfida culturale che le neotecnologie dell’informazione e della comunicazione ci impongono è elevata, ma non dobbiamo perdere la speranza nel credere che si può fare, che l’agire quotidiano può essere infarcito di coinvolgimento umano, di componente emotivo-relazionale, che la digitalizzazione delle società post-moderne, e il passaggio dal web statico al web 2.0 può e deve essere governato-accompagnato dal mondo adulto.
Non possiamo essere solo una colonia al servizio del consumismo. L’attività del docente di sostegno si sta schiacciando verso un continuare a correre dietro a contenuti, tutti forieri di conoscenze utile da sapere, ma lo sviluppo del sapere nelle nostre società avanzate ha un’espansione orizzontale e non più verticale; dal pensiero verticale gerarchico, si è passati alle connessioni multiple, con un apprendimento fatto a grafo e con nodi che vanno affrontati anche con una didattica modulare adattabile ai processi che in classe si attuano ed emergono.
Le neosfide connesse con il nuovo modo di affrontare il processo di insegnamento-apprendimento non si affrontano limitandosi a un aggiornamento tecnologico, che ci faccia scoprire quante cose si possono fare, ma, accanto all’aumento delle possibilità conoscitive, è indispensabile recuperare un tempo e uno spazio utile per l’analisi, la riflessione e il confronto intorno al tavolo di lavoro.
Hanno sempre più bisogno, i nostri ragazzi – tutti i nostri studenti e non solo quelli con disabilità -, di attività “meta”: meta-emozioni, meta-cognitiva… Non sono più abituati a confrontare in presa diretta il loro pensiero con quello degli altri, a co-costruire in presenza l’estesa città del conoscere. Ma se non lo facciamo noi adulti-docenti, come possiamo “pretendere” che i discenti-adolescenti lo facciano?
La scuola si basa sull’evidenza e da ciò dobbiamo ripartire, facendo un buon uso sia delle norme vigenti sia del mutato cambiamento culturale e tecnologico. Cerco di spendermi laddove mi trovo, per far cambiare la mentalità, ma pare che tutto ciò che sta intorno a noi ci condizioni, ci limiti nel nostro modo di essere persone riflessive e pedagogisti in azione. Noi docenti dovremmo essere coloro che osservano e registrano l’evidenza sul campo, elaborano un progetto, indi lo realizzano nell’agire quotidiano, e solo da ultimo lo valutano, pensando sia a cosa è stato fatto con la propria classe, sia a quanto si è ottenuto. Il fine è quello di apprendere e quindi, se necessario, va “ritarato” il proprio intervento didattico-educativo con tutti gli alunni, affinché diano il meglio di loro stessi, ma bisogna programmare insieme e poi ognuno realizza il proprio segmento didattico-educativo in sinergia d’intenti.
Per cercare di concludere un discorso, desidero ancora una volta ribadire che è indispensabile che l’insegnante specializzato coinvolga, solleciti, ma innanzitutto stimoli il confronto anche intellettuale con i suoi colleghi curricolari, pena l’inaridimento delle attività didattico-disciplinari talvolta ridotte quasi a mera esecutività, anche se tecnicamente elevate.
L’insegnante specializzato continui a sollecitare, a fare da pungolo, offrendo la sua competenza, volta a sostenere non solo il processo di insegnamento-apprendimento, ma anche i momenti formativi volti alla valorizzazione di un percorso di socializzazione e di relazioni dinamiche e interattive, sia in seno alla classe di appartenenza del disabile, sia all’esterno di essa (partecipare ad attività sportive, teatrali, laboratoriali sono passaggi che in genere forniscono quel valore aggiunto necessario all’integrazione scolastica la quale, così facendo, si muove verso l’inclusione).
Non perdere di vista il tutto, non limitarsi alla didattica applicata per poter integrare, avere una visione lungimirante, condividerla con i genitori che hanno la responsabilità educativa. Al nostro studente con disabilità occorre offrire pari opportunità in aula, con lezioni volte a far leva sui nuclei fondanti delle discipline e con l’utilizzo di ogni prezioso ausilio volto a “compensare” e a fare da supporto al successo scolastico, affinché il sé accademico dello studente stesso sperimenti il senso di autoefficacia e si costruisca – il nostro studente-persona – una personalità sicura di sé che si fondi su una buona autostima.
Per poter condividere, occorre pensare alla persona nella sua interezza, occorre proporre percorsi di orientamento esistenziale che si fondino su attitudini, interessi e motivazione intrinseca. Dobbiamo, noi insegnanti specializzati, non perdere di vista che ci dobbiamo “prendere cura” della persona con disabilità e in tale prospettiva, a parer mio, l’insegnante specializzato è l’ultimo baluardo dell’inclusione scolastica, ma all’inclusione sociale non dobbiamo pensarci?
Non voglio più solo insegnare ai miei studenti, voglio accompagnarli verso il raggiungimento della loro meta esistenziale: essere autonomi e, compatibilmente con i loro bisogni specifici, diventare cittadini che camminano nel mondo e non ridursi a essere solo cittadini del mondo.
Non mi limito ad operare all’interno dell’edificio scolastico, rendendo lo studente con disabilità disciplinarmente competente, ma esco all’esterno della scuola, vado sul territorio a fare esperienze. Propongo e realizzo progetti volti a vivere e a far vivere situazioni in un contesto naturale di vita: all’interno della scuola, infatti, il mondo è “ovattato”, protetto.
Desidero esporre le persone con disabilità adolescenti al loro mondo sociale, affinché si abituino ad esso e si immergano in situazioni di vita reale, vivendole e interiorizzandole. È proprio interiorizzando percorsi esperienziali che li faranno propri, che saranno allenate a vivere e ad affrontare situazioni concrete e non solo surrogate e ipotizzate in aula o in auletta BES o di sostegno.
Per fare tale operazione sistemica, desidero innanzitutto ardentemente comunicare loro che ci sono, prima come persona-adulta, poi come docente; desidero sostenerne il processo di crescita globale e non solo il loro successo scolastico.
L’essere docenti a scuola è innanzitutto un “fatto umano” da vivere in presenza, poi un percorso didattico-disciplinare e formativo, da attuarsi nelle ore di lezione. Anche su queste tematiche faccio le mie battaglie culturali volte a supportare il cambiamento di pensiero, ma mi dicono: «Chi te lo fa fare?», reiterandomi il messaggio che sono un idealista. È vero, sono uno “sporco idealista”, poiché ci credo; credo che la scuola, accanto alla famiglia, possa accompagnare lungo il loro cammino di crescita i ragazzi/e a essere loro stessi avendo fiducia nella loro forza interiore.
È proprio per questo che non demordo, è proprio per questo che divento credibile con pochi, i molti non vogliono il cambiamento, difendono lo status quo, il relativismo, il loro orticello… È il contesto culturale che deve mutare. Se la scuola superiore è l’ultimo grado, oltre che l’ultima occasione di socializzazione con i pari, penso e credo che debba divenire un’opportunità di crescita globale ed è in questa prospettiva che l’insegnante specializzato è necessario che operi e si adoperi, non facendosi schiacciare al mero compito di insegnante tuttologo pluridisciplinarista.
Non so più insegnare… Sono però diventato titolare di classe di concorso, oggi ADSS [AreaDisciplinare Sostegno Secondario di secondo grado, N.d.R.], prima ero DOS-sostegno, ma a tutt’oggi il primo giorno di scuola, insieme ai miei colleghi, non mi assegnano le classi; non ricevo lo stesso trattamento dei miei colleghi dal dirigente scolastico e dalla scuola e vengo un po’ marginalizzato (pensare e comunicare che pensi è divenuto poco consono, soprattutto se fai un’analisi psicopedagogica sull’importanza della presa in carico del progetto inclusivo: meglio limitarsi a fare-eseguire). Ciò nonostante ho a cuore il mio lavoro di docente e inizio a costruire ponti lungo i quali accompagno i miei studenti affinché possano assumere un congruo posizionamento in seno alla nostra società. Per fare ciò ho in parte rinunciato al mio insignere [“insegnare”, N.d.R.] al fine di far prevalere il mio ex-ducere [“educare”, N.d.R.].