Che cosa vuol dire essere costretti a vivere con una patologia che atrofizza il nervo ottico?
Quando ho ricevuto la diagnosi, nel 1992, negli Stati Uniti, presso il conosciutissimo centro di ricerca del John Hopkins Medical Center a Baltimora, dopo una serie di diagnosi errate lungo un percorso di setto od otto mesi, mi è stato detto che sarei diventata cieca e che non esisteva una cura.
È come essere lungo gli argini di un fiume, dove il medico è da una parte e il paziente dall’altra e vediamo paesaggi diversi. Il paziente che riceve una diagnosi del genere che non offre spiragli si sente perso in uno spazio infinito, privo di riferimenti. Piano piano la vista scompare, dietro un luminoso e accecante scotoma [difetto lacunare del campo visivo relativo a un’area più o meno estesa, N.d.R.], che si allarga giorno dopo giorno fino ad occupare quasi tutto il campo visivo, mentre tutta la vista periferica viene punteggiata di minuscole luci, come quando la televisione funziona male e l’immagine viene ingrigita da tanti puntini.
Non c’è il tempo di adattarsi a questa nuova vita e a questi sintomi devastanti. Quella “palla di sole” non se ne va, neppure di notte, e nessuno riesce a comprenderti.
Naturalmente ognuno di noi è diverso dall’altro: c’è chi si dispera, chi cade in depressione, chi perde la voglia di vivere e cerca di togliersi la vita e c’è chi realmente se la toglie, ma c’è anche chi ad un certo punto, grazie anche agli amici veri e alle condizioni familiari positive, riesce a dare una svolta alla propria vita, con grande fatica.
La nostra società, però, non ci mette nelle condizioni di essere integrati, di essere compresi, di essere trattati come persone “normali”. Il non vedere più le persone che ci sono intorno ci rende insicuri e vulnerabili. C’è una vita dopo la diagnosi che ci posiziona in un totale stato di abbandono.
Solo negli ultimi anni, grazie ai social e alla tecnologia, anche le persone con disabilità visiva hanno incominciato ad incontrarsi, a colloquiare tra loro , a condividere idee, esperienze e informazioni.
Io sono rientrata in Italia ventidue anni fa. Mi sono sempre occupata di volontariato nel sociale e così ho continuato a fare, organizzando eventi per aiutare i più deboli, ma per la maggior parte, concentrandomi sugli altri e non sulla disabilità visiva.
Mi rendo conto solo oggi che questa è stata per me una sorta di protezione dall’ignoranza sulle disabilità visive che regna ancora oggi nella società.
A nessuno piace sentirsi biasimato, sentirsi dire “poverino”, sentirsi osservato e anche messo da parte, perché si pensa che non sia in grado di fare nulla. Il disabile visivo rappresenta “un peso” perché non può muoversi da solo, non può prendere l’automobile quando vuole e incontrare gli amici, ma ha sempre bisogno di un passaggio. Gli stessi amici e i familiari spesso stentano a credere che la situazione sia realmente così grave, perché da fuori non si vede che non vediamo. L’occhio rimane uguale, non ha gonfiori e non si può notare dall’esterno.
Quando nel ’92 mi è stato detto che sarei diventata cieca e due settimane dopo lo sono diventata davvero, credevo anch’io che essere ciechi volesse dire vedere tutto nero. Ma anche il nero è un colore e chi è cieco non vede nulla. Chi è affetto dalla neuropatia ottica di Leber (LHON) vede luci, ombre e forme strane, non corrispondenti alla realtà.
Oggi rappresento gli ERNs [Reti di Riferimento Europee delle Malattie Rare, N.d.R.] per le Malattie Rare agli occhi in Italia, ho completato la Eurordis Summer School e sono diventata Patient Expert, con tanto di diploma, e finalmente non mi sento più un numero.
Anche qui in Italia il ruolo del paziente è diventato fondamentale. Noi pazienti ci diamo da fare per raccogliere fondi per la ricerca e riusciamo persino a finanziare progetti specifici; collaboriamo con Telethon e partecipiamo alle discussioni per le approvazioni dei farmaci all’EMA [Agenzia Europea del Farmaco, N.d.R.]. Ma a livello del dopo diagnosi c’è ancora tutto da fare. Nel Lazio, ad esempio, c’è un referente per la LHON presso l’Ospedale San Camillo di Roma, ma non esiste un centro, né presso lo stesso Ospedale né altrove, che segua i pazienti LHON e le famiglie dopo la diagnosi.
Esistono Associazioni varie, come l’UICI (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti), ma io stessa ci ho messo un po’ di tempo prima di accettare persino di farne parte.
C’è una grande differenza tra chi è nato cieco, soprattutto cinquanta o sessant’anni fa, quando il cieco veniva ancora messo da parte e cresciuto negli istituti per ciechi. Oggi la tecnologia ha fatto enormi passi avanti e dà la possibilità a una persona con disabilità visiva di fare quasi tutto.
Anche questo serve a dare maggiore sicurezza a chi non vede, ad uscire di casa da soli, accompagnati da un cane guida o da un bastone bianco in grado persino di illuminarsi di notte o di parlarti, di indicarti gli ostacoli. Ci sono centinaia di applicazioni per smartphone che parlano con le sintesi vocali e che leggono libri, giornali, riviste, descrivono le foto e i grafici, prenotano treni e aerei e navigano su internet. I social network hanno messo in contatto anche quelle persone che da anni vivono sole nel loro buio e che hanno potuto conoscere altre persone nella loro stessa condizione, facendo nascere tante amicizie.
Dal lato oscuro della realtà di chi soffre di una neuropatia ottica c’è poi una realtà tutta italiana che emerge tra relazioni complesse tra vicini di casa, amici non più amici o rivali sul lavoro.
Partono le denunce e molti non vedenti si sono trovati, negli ultimi anni in Italia, coinvolti in interminabili e dolorosissime cause penali. Alcuni di loro sono stati sbattuti sulle pagine dei giornali o in televisione, magari perché fotografati mentre utilizzavano un telefonino (con la sintesi vocale) o mentre camminavano per strada senza bastone bianco, o ancora quando si provavano vestiti e magari si posizionavano davanti a uno specchio, atteggiamenti naturali che avevano sempre avuto e che non possono essere prove di trovarsi davanti a una persona che sta truffando lo Stato.
Ricevo numerose telefonate ogni settimana da persone che si trovano in queste condizioni, che hanno perso il lavoro senza riuscire più a trovarne un altro e che non riescono neppure a ricevere una pensione di invalidità o un’indennità di accompagnamento.
Potrei parlare di quella signora di 61 anni che ha perso la vista adesso, nel giro di pochi mesi, e che non potrà più fare la macellaia per la cooperativa sociale per la quale lavorava, oppure del paziente che fa il centralinista da vent’anni e che ora rischia di perdere il lavoro perché stanno togliendo tutti i centralini, o anche della bimba di 4 anni che ha perso la vista per la neuropatia ottica di Leber e non dorme la notte perché vede i mostri, le luci che prendono forme svariate e che anche di giorno all’asilo la tormentano, mentre le maestre non sanno come comportarsi con lei.
Oppure potrei raccontare di quel signore cieco di 62 anni che nel suo paese nel Sud d’Italia ogni giorno esce di casa, cammina per cinquanta metri per andare al bar, si siede a prendere un caffè e poi si ferma pochi metri più in la e passa dal supermercato, dove ormai conosce a memoria tutti gli scaffali, fa la spesa e poi si ritrova sui giornali locali e in televisione come “falso cieco”. Dopo anni e anni di dolorosi e umilianti processi e tre tentativi di suicidio, ha perso la pensione, nonostante abbia finalmente avuto una diagnosi per la sua patologia, che è appunto la neuropatia ottica ereditaria di Leber con motu mano. Viene comunque condannato in primo grado e poi la causa cade in prescrizione. Lui, che da quarant’anni prendeva la pensione, ora è costretto ad essere mantenuto dalla figlia giovane che lavora, ma nel frattempo ha perso amici e parenti che non gli credono, visto quello che hanno scritto sui giornali e che è passato in TV…
Potrei raccontarne a decine di storie e si potrebbe davvero girare un film… Invece concludo dicendo che questa è la nostra battaglia: noi vogliamo il riconoscimento dei nostri diritti e non vogliamo essere dimenticati dopo la diagnosi.
È importante seguire i pazienti in un Percorso Terapeutico Diagnostico Assistenziale e questo percorso deve includere le famiglie dei pazienti, portare questi ultimi per mano durante gli studi e nel ritrovamento di uno scopo, in un percorso formativo e psicologico, nel quadro di una sensibilizzazione della società, lavorativa e della vita in generale.
Presidente dell’Associazione Vivi Vejo, Roma.
Articoli Correlati
- Sordocecità, la rivoluzione inclusiva delle donne Julia Brace, Laura Bridgman, Helen Keller, Sabina Santilli. E poi Anne Sullivan. Le prime quattro erano donne sordocieche, la quinta era “soltanto” quasi completamente cieca, ma non si può parlare…
- L'integrazione scolastica oggi "Una scuola, tante disabilità: dall'inserimento all'integrazione scolastica degli alunni con disabilità". Questo il titolo dell'approfondita analisi prodotta da Filippo Furioso - docente e giudice onorario del Tribunale dei Minorenni piemontese…
- L'ONU e le persone con disabilità Si avvicina la sesta sessione di lavoro del Comitato incaricato dall'Organizzazione delle Nazioni Unite di elaborare una Convenzione sulla Promozione e la Tutela dei Diritti e della Dignità delle Persone…