Nonostante le positive premesse contenute nel Decreto Legislativo 151/15, in realtà sono ancora pochi i cambiamenti realizzati in àmbito di inclusione lavorativa delle cosiddette “fasce deboli”. La creatività, il dibattito, le esperienze e le buone prassi promosse nei territori provinciali rimangono tentativi inascoltati, in attesa della pubblicazione delle relative Linee Guida.
L’attesa delle riforme, però, non può essere un comodo alibi per non fare nulla; bisogna nel frattempo continuare la ricerca di nuove esperienze, di buone prassi e diffondere i modelli innovativi, trasferibili e sostenibili, facilitando così la comunicazione tra tutti i soggetti interessati, pubblici e privati.
Si deve inoltre cercare di superare l’errato rapporto strategico con il privato, visto spesso come “controparte”, come soggetto a cui attingere risorse o come “scomodo concorrente”. La stessa cosa va fatta verso il privato sociale, a volte usato come “comodo servitore”, altre come sostituto del welfare pubblico.
E tuttavia, per fare questo è necessario ritrovare la memoria storica e la creatività, quali indispensabili strumenti per affrontare il rapido e continuo cambiamento che caratterizza il nostro tempo e ricercare soluzioni adeguate ai bisogni delle persone, dei servizi e del mercato del lavoro.
L’esperienza maturata a lungo nel campo dei servizi per l’inserimento lavorativo per disabili e fasce deboli, mi ha costretto a riflettere sulle cause che hanno rallentato il processo di collocamento al lavoro delle persone in condizioni di svantaggio sociale e sulle possibilità di individuare strategie alternative.
Sicuramente non troveremo la risoluzione a tutte le contraddizioni culturali e sociali in essere, ma potremo sperimentare nuove prassi che potrebbero rivelarsi più efficaci rispetto a quelle attuate negli ultimi anni. Comunque sia, visti gli scarsi risultati raggiunti, lo sperimentare nuove strategie è comunque meglio del conservare e perseverare in consuetudini e comportamenti che si sono rivelati poco efficaci.
Le reti
È questo il termine usato nel sociale per definire le collaborazioni e le cogestioni programmate dai soggetti sociali pubblici per realizzare servizi, progetti, azioni ecc., a sostegno delle singole persone o categorie sociali. Le reti di cui ci occuperemo in questa sede sono quelle interessate all’inserimento lavorativo delle persone con disabilità.
L’attività delle reti è svolta da soggetti accreditati al lavoro appartenenti al privato o al privato sociale; spesso vi partecipano anche servizi sociali e socio-sanitari pubblici. L’ operatività consiste nella presa in carico di persone con disabilità e nella realizzazione di un percorso di accompagnamento al lavoro. Ogni componente della rete attiva autonomamente tutte le azioni necessarie allo sviluppo del progetto personalizzato di inserimento, ponendosi come esperto: della valutazione funzionale, dell’orientamento lavorativo, della formazione al lavoro, della ricerca del contesto lavorativo e della consulenza in merito ai rapporti di lavoro.
Purtroppo non ci sono soggetti che possiedono tutte le professionalità necessarie, anzi la realtà ci presenta enti con esperienze e competenze diverse: chi si occupa di formazione professionale, chi di inserimento lavorativo, chi di mercato del lavoro e così via. Ognuno con una propria storia, con esperienze e competenze consolidate, con strutture adeguate e un proprio linguaggio sociale.
Tutto ciò costituisce la loro identità e professionalità, che dovrebbe essere valorizzata nell’interesse comune, ma in realtà viene annullato, rimosso, appiattito e omologato in un unico modello di “ente iper-esperto” in tutti i campi dell’inserimento lavorativo, in grado di farsi carico, di traghettare al lavoro qualsiasi persona con disabilità e di svolgere tutte le azioni necessarie.
Questo è spesso indotto inconsapevolmente dall’impostazione delle politiche attive promosse dalle Istituzioni Pubbliche. Viene infatti posta più attenzione alla correttezza procedurale e amministrativa, rispetto all’efficacia delle azioni e alla positività dei risultati.
I soggetti accreditati, obbligati ad aderire a queste proposte, sono costretti ad accantonare la loro identità di enti di formazione, di cooperative sociali e altro, per improvvisarsi esperti complessivi di percorsi di accompagnamento al lavoro. Di conseguenza abbiamo enti di formazione che si occupano di bilancio di competenze, agenzie per il lavoro di formazione, le cooperative di mercato del lavoro e così via. Tutti esperti in tutto!
Nascono quindi una serie di contraddizioni e problematicità che vanificano le peculiari capacità dei singoli enti, compromettendo, a volte, le reali possibilità di accesso al mondo del lavoro delle persone con disabilità in carico.
Ciò nonostante l’attuale modello di rete sembra insostituibile ed è tuttora considerato come l’unica strategia veramente democratica, pluralista e sinergica possibile. La rete, infatti, coinvolge più soggetti istituzionali e non, che operano in un territorio: si coinvolgono, si coordinano, coprogettano, sinergono si efficientizzano ecc., con una convinta buona fede che li fa credere protagonisti e artefici di un welfare sempre più innovativo e di qualità.
Purtroppo l’evoluzione ha portato inconsapevolmente le reti verso contraddizioni che ne hanno vanificato in parte l’originale scopo sociale. Un’evidente disfunzione, ad esempio, è riscontrabile nella frequenza di riunioni cui i vari soggetti della rete devono partecipare. “Tavoli” che sottraggono operatività e impegno ad operatori coinvolti in incontri dove, troppo spesso, si consuma il rito dell’autoaffermazione del proprio ruolo. A ciò si aggiungono alcuni aspetti negativi che stanno compromettendo l’iniziale efficacia delle reti: l’autoreferenzialità, il presenzialismo, l’autarchia, la delega, la confusività, la concorrenzialità e l’acriticità. Vediamoli uno per uno.
Autoreferenzialità: è l’atteggiamento che porta molti operatori a considerarsi il meglio nel settore. La rete, attraverso l’autocompiacimento dei singoli operatori, si legittima sempre di più, utilizzando come “carburante” l’autogratificazione.
Presenzialismo: troppo spesso gli operatori degli enti appartenenti alla rete sono impegnati in riunioni. Incontri che consentono di consolidare i rapporti fra di loro e l’identità della rete. Questo atteggiamento, in sé positivo, spesso scivola verso un ripiegamento interiore che allontana dalla società reale.
Autarchia: le reti – e con loro le organizzazioni che ne fanno parte – spesso presentano comportamenti autarchici, si isolano dal contesto sociale e a volte producono atteggiamenti di tipo monopolistico.
Delega: agli incontri della rete spesso partecipano responsabili, coordinatori ecc., che successivamente delegano le azioni concrete ai loro operatori o ad altri soggetti esterni.
Confusività: troppo spesso le reti sono costituite da soggetti che svolgono gli stessi compiti, con il rischio della sovrapposizione, dell’invasione di campo, ciò che spesso crea una disordinata e scarsamente efficace risposta ai bisogni occupazionali delle persone con disabilità.
Concorrenzialità: si tratta di un atteggiamento sempre presente, che spinge gli attori della rete ad essere attenti e diffidenti verso gli altri. Ogni volta che viene finanziato un progetto, si apre la competizione per accaparrarsi la parte più significativa. Sono gli stessi operatori a denunciare questo metodo assurdo di cui dichiarano di essere inesorabilmente vittime.
Acriticità: la rete è spesso priva di criteri di valutazione della qualità. Gli obiettivi perseguiti sono quasi sempre di tipo quantitativo, anche perché sono gli unici richiesti dai committenti della rete.
Oggi la rete è l’unico strumento strategico a disposizione delle Istituzioni Pubbliche. Ad essa si rivolgono per la realizzazione di servizi, progetti, politiche attive e così via. A volte viene demandato alla rete anche il compito di definire, promuovere, coprogettare o gestire le politiche di welfare locale. Ne consegue che, in molti casi, le reti vivono troppo spesso all’ombra dei palazzi istituzionali, assorbendone il modo di essere e operare. Si accentua dunque il rischio di un piatto e tranquillizzante conformismo e di una gestione amministrativo/burocratica dei servizi e delle politiche attive.
A ciò si aggiunge la carente disponibilità di risorse economiche, del tutto insufficienti per fronteggiare la quantità e complessità delle contraddizioni sociali attuali e che si presenteranno nel prossimo futuro. È pertanto indispensabile affrontare il problema dell’occupabilità delle “fasce deboli” attraverso nuove strategie.
Nel mondo scientifico le complessità vengono affrontate attraverso la suddivisione in competenti ed efficaci specializzazioni. Il welfare e le contraddizioni sociali richiedono lo stesso approccio e necessitano della partecipazione di più soggetti in grado di ripartirsi i compiti e creare uno spirito collaborativo, rispettoso delle competenze, della professionalità e della storia di ognuno, promuovendo azioni efficacemente inclusive.
C’è bisogno di un welfare locale in grado di individuare le nuove aree di rischio, di costruire percorsi inclusivi, di pari opportunità e di favorire l’accesso al lavoro attraverso politiche attive efficaci che vedano il coinvolgimento e il sostegno delle famiglie, delle associazioni, dei servizi ecc.
Purtroppo la proliferazione di iniziative sparse, l’incapacità di portarle a sistemi condivisi, l’errato rapporto strategico con gli stakeholder [“portatori d’interesse”, N.d.R.] territoriali rallentano il processo di inclusione socio-lavorativa dei soggetti più fragili. Gli uffici provinciali competenti, i servizi comunali, gli enti accreditati, la scuola, la formazione, i servizi di inserimento lavorativo, le cooperative sociali, le associazioni, le famiglie, sono tutte realtà che possono dare un contributo rilevante alla soluzione dei problemi connessi all’inserimento lavorativo delle persone con disabilità. È pertanto indispensabile coinvolgerle e coordinarle con nuove modalità, passare dall’attuale logica delle reti a quella dei processi condivisi e dei sistemi territoriali.
Ne consegue la necessità di creare e sperimentare modelli innovativi, trasferibili e sostenibili, e di facilitare l’informazione e la diffusione. È inoltre quanto meno necessario supportare i Comuni, i Servizi Sociali e i Servizi Socio-Sanitari territoriali che si trovano sempre più in affanno, nell’affrontare le richieste di aiuto provenienti dai cittadini in difficoltà e sostenere l’azione dei Servizi per il Collocamento Disabili.
A parere di chi scrive, tutto questo è possibile attraverso la creazione di sistemi territoriali per il lavoro efficaci, dinamici, flessibili e duraturi, in grado di coinvolgere tutti i soggetti interessati del territorio, disponibili ad operare con uno spirito collaborativo, rispettoso delle competenze, della professionalità e della storia di ognuno.
Dalle reti al sistema territoriale per il lavoro
È oramai palese che la crisi economica ha cambiato in modo significativo il tessuto produttivo locale e nazionale, con una conseguente crisi occupazionale e una drastica riduzione delle richieste di lavoro a bassa specializzazione. Queste trasformazioni hanno allontanato dal mondo del lavoro una fascia sempre più ampia di persone. Si è così allargata l’ area di “fragilità sociale”, non più limitata alle disabilità e al disagio, ma a categorie di persone che in passato non necessitavano di alcuna forma di sostegno.
Appare pertanto sempre più evidente la carenza quantitativa e qualitativa di servizi per il lavoro e la presenza di prassi e progetti obsoleti scarsamente efficaci, che non riescono né a coinvolgere né ad interessare le realtà produttive del territorio.
Le ultime disposizioni di legge in materia hanno colto tali difficoltà e hanno suggerito la “Promozione di una rete integrata con i servizi sociali, sanitari, educativi e formativi del territorio”, alla quale, a mio avviso, andrebbero aggiunti e coinvolti tutti i soggetti che possono dare un contributo alle politiche attive a favore delle persone in condizioni di svantaggio sociale (Associazioni, Cooperative Sociali, Agenzie per il Lavoro ecc.). Tutti devono essere coinvolti e ognuno deve dare il proprio contributo, condividendo il proprio patrimonio di esperienze e conoscenze. In altre parole, il vecchio concetto di rete deve lasciare il posto ai sistemi territoriali per l’inserimento al lavoro delle persone con disabilità.
Per sua definizione intrinseca, il sistema è una connessione di elementi in un tutto organico e funzionalmente unitario. È una struttura complessa composta da più elementi diversi con specifiche funzioni comunque utili per il suo funzionamento. Ogni soggetto che compone un sistema sociale viene esaltato e potenziato nella sua peculiarità; non si rischia di omologarlo agli altri, non si creano sovrapposizioni e non si genera alcuna conflittualità sulle competenze, in quanto ognuno ha un ruolo preciso, riconosciuto e utile per il funzionamento del sistema. L’ assenza o il cattivo funzionamento di un componente può compromettere l’azione dell’intero sistema. Ognuno è presente con la sua storia, le sue esperienze e le sue competenze.
Il miglioramento del sistema, inoltre, opera trasversalmente: infatti, il successo o l’insuccesso del singolo coinvolge l’interesse comune e l’attenzione si concentra maggiormente sulla persona oggetto dell’azione del sistema stesso. Quest’ultimo ha una natura democratica, l’organizzazione e la suddivisione dei compiti vengono concordate in modo trasparente e il monitoraggio e il controllo sono compito di tutti.
Il sistema territoriale per il navoro necessita di un gruppo ristretto di soggetti in grado di racchiudere tutte le competenze necessarie, coinvolgere e coordinare tutti gli attori interessati, al fine di evitare ogni sovrapposizione o duplicazione delle funzioni.
I sistemi e i servizi per il lavoro devono avere una dimensione territoriale locale, in quanto contesto ottimale di programmazione, gestione ed erogazione di interventi occupazionali, in coerenza con i principi di sussidiarietà verticale e orizzontale. Devono rafforzare la logica di corresponsabilità, di condivisione degli obiettivi, di integrazione delle risorse e di capillare e diretto collegamento con il mondo produttivo. Devono quindi disporre di una struttura in grado di:
° relazionarsi direttamente con il mercato del lavoro e il mondo produttivo locale;
° costruire percorsi di orientamento e accompagnamento al lavoro personalizzati;
° migliorare i servizi di incontro domanda e offerta.
L’inclusione lavorativa è un problema culturale e come tale richiede la partecipazione di tutti e tempi lunghi di trasformazione. Non possiamo illuderci di risolvere tutti i problemi connessi all’occupabilità delle persone con disabilità in tempi brevi; è però utile avviarsi sulla strada giusta e migliorare lo stato attuale, offrendo una possibilità di lavoro a un maggior numero di persone con disabilità.
L’organizzazione del sistema prevede la costituzione di un ATS [Associazione Temporanea di Scopo, N.d.R.]e di un tavolo di regia, cui partecipino un rappresentante ciascuno per i servizi sociali o socio-sanitari, per la formazione, per la cooperazione e per il mercato del lavoro. Essi avranno il compito di coinvolgere e coordinare tutti i soggetti del territorio interessati all’inclusione lavorativa delle persone con disabilità.