Nel 2020, in Italia, ci saranno 4,8 milioni di persone con disabilità. Io faccio parte di quel numero. Ma non sono un numero. Sono una persona. Ho un nome e una storia, e invito tutti gli uomini politici di ogni partito ad ascoltarla.
Sono lucana e la mia storia inizia a 4 anni, l’età in cui i bambini dovrebbero correre e giocare. Invece, la poliomielite bussa alla mia porta. Pochi anni dopo non cammino più e da allora la carrozzina diventa la mia inseparabile compagna di vita.
Nel momento in cui vi scrivo – badate bene, grazie ad altre mani, perché le mie non le muovo – sono invalida civile al 100% e non uso gli arti inferiori e superiori: i miei sono stati anni di sofferenze, del corpo e del cuore, e di lotte portate avanti con tenacia.
Da sola non riesco a compiere neppure il più banale gesto e per stare seduta sulla carrozzina devo portare un busto rigido che mi sostiene. Dipendo completamente, in tutto e per tutto, dagli altri ,e chi ama l’autonomia e la libertà, chiuda un attimo gli occhi e provi a pensare a come ci si sente. Anche solo per bere un bicchiere d’acqua, sfogliare un giornale, voltarmi nel letto, scrivere un messaggio, dipendo da altre persone.
La mia vita è stata sempre una dura prova: oltre alla poliomielite e ai numerosi interventi chirurgici alle articolazioni, ho dovuto affrontare un’operazione per asportare un meningioma al cervello. Il mio corpo è stato flagellato, ma nonostante tutto non ho mai smesso di amare la vita e affrontare con fede la sofferenza. Convivere con essa, accettarla e accoglierla per testimoniare il valore e la bellezza della vita, sono tappe di un cammino lungo e difficile, ma che con gioia percorro ogni giorno e che mi conduce ad amare anche il mio corpo provato e la mia vecchia carrozzina.
Il più grande sostegno, in questi anni, mi è arrivato dalla mia famiglia e dall’Associazione UNITALSI. Ma è giusto che il più grande aiuto a un disabile arrivi da un’Associazione di volontari, mentre ci si debba sentire abbandonati dallo Stato?
Oggi, dopo tutti questi anni, mi trovo a riflettere su come sia più semplice per me accettare la mia malattia alla luce della fede, piuttosto che rassegnarmi all’indifferenza di chi ci governa e a un immobilismo legislativo che ferisce e abbandona i cittadini meno fortunati e più soli.
Nel 2020, dicevo ad apertura della lettera, i disabili italiani saranno 4,8 milioni. Milioni di persone, ognuno un numero che nasconde un nome, una storia di sofferenza e la speranza che qualcuno si accorga di lui. Milioni di fantasmi inesistenti per lo Stato.
I dati Censis parlano chiaro: il vero perno del welfare è la famiglia, sulla quale ricade la responsabilità e il peso dell’assistenza della persona con disabilità, soprattutto in età adulta.
I disabili adulti rimangono in carico alla responsabilità delle loro famiglie con sostegni istituzionali limitati. Dal confronto con gli altri Paesi europei, inoltre, emerge che la spesa per le prestazioni di protezione sociale per la disabilità è molto inferiore alla media europea.
L’assenza di politiche serie e concrete per le persone con disabilità grave mi ha costretta a lasciare un piccolo paese della Basilicata, San Chirico Raparo, a cui sono molto legata e dove ho vissuto per più di cinquant’anni con tante difficoltà.
Fino al 1992 ho abitato in una casa di 16 metri quadri, con un bagno largo 50 centimetri e alto 100, separato da una tenda dal resto dell’appartamento. Per raggiungere la strada dovevo superare circa quaranta gradini, che per me erano un muro enorme, invalicabile. L’unica possibilità per uscire di casa era quella di essere portata in braccio. Finalmente, nell’aprile del 1992 mi fu assegnato un alloggio idoneo, privo di barriere architettoniche. Dopo qualche anno mi proposero di acquistarlo.
Nel 2000 è morta mia madre. Sono rimasta sola, ma ho scelto di restare a San Chirico, nella mia amata Basilicata. Le risorse economiche non erano sufficienti per vivere dignitosamente, però, e le esperienze avute con le badanti sono state a dir poco disastrose. Rimaneva un’unica soluzione: trasferirmi a Carpi, in provincia di Modena, dalla famiglia di mia sorella. Quella famiglia sulla quale ricade la responsabilità e il peso dell’assistenza del disabile.
Per garantirmi un’assistenza continua, mia sorella ha dovuto rinunciare al suo lavoro in fabbrica. Nel cambiare residenza, poi, l’alloggio di San Chirico è diventato seconda casa e oltre a vivere il dispiacere per il distacco, mi sono ritrovata anche a pagare l’ICI sull’unica casa di mia proprietà, che non ho venduto per tornare nel mio paese natale quando possibile e visitare i miei cari al cimitero.
Con questa lettera voglio chiedere di aprire gli occhi e il cuore sulla dolorosa e gravissima realtà dei disabili gravi e dei familiari che li assistono, specie in questo momento pre-elettorale, dove sembra che i politici facciano a gara a gettarsi fango addosso, senza soffermarsi sulle vere esigenze di una parte di popolo che sembra invisibile, solo un numero, ma c’è.
Una sola persona non è sufficiente per assistere un disabile grave ventiquattr’ore su ventiquattro, per la verità non ne basterebbero nemmeno due, in casi come il mio, e i sostegni al reddito non bastano a garantire una vita dignitosa. Mia sorella mi assiste con amore e dedizione, ho accanto dei familiari con un cuore grande, ma mi rendo conto che assistere una persona con disabilità grave richiede forza fisica, risorse economiche, sacrifici e rinuncia alla privacy, al proprio tempo libero e persino al lavoro. Non sarebbe giusto venire incontro a queste famiglie?
Invece di aumentare il sostegno alla disabilità, si costringe a fare dell’assistenza un onere esclusivo della famiglia. La separazione tra il mondo delle Istituzioni e la vita sociale reale impedisce ai rappresentanti della “cosa pubblica” di conoscere le proporzioni realistiche dei costi determinati dall’esistenza di gravi disabilità.
Condivido queste riflessioni perché nel caso di una disabilità grave come la mia, il trasferimento in un’altra città è stato un passo obbligato; e tuttavia mi trovo nella “trappola della burocrazia” che non discerne le situazioni caso per caso e che mi grava di tasse più alte sulla casa faticosamente ottenuta, quando le risorse economiche già scarse occorrerebbero per ben altre attività prioritarie, quali, ad esempio, medicinali e terapie.
Spesso i familiari sono costretti ad abbandonare il lavoro, per cui a chi si occupa del disabile dovrebbe essere riconosciuto uno status giuridico cui far corrisponderere un riconoscimento economico, perché oltre ad adempiere a un proprio dovere morale, sostituisce letteralmente lo Stato, laddove quest’ultimo non assolve alla sua funzione costituzionale di farsi carico dei disabili, generando un risparmio notevole in termini di spese assistenziali e anche ospedaliere, determinato dal ricovero in famiglia e sotto l’assistenza di un congiunto.
La Legge 104/92 prevede congedi retribuiti per due anni: tuttavia, dopo due anni, il disabile non guarisce; la sua è una condizione perpetua. In quest’ottica, s’inserisce la proposta di prevedere la tredicesima sulle indennità di accompagnamento e il prepensionamento per i familiari che assistono disabili gravi e gravissimi. La legge sul prepensionamento è importante per i familiari dei disabili, per restituire loro un po’ di vita, anche perché nessuno sa seguire un disabile grave come un familiare stretto e quindi lo Stato deve permettere che questo sia possibile.
E da ultimo, c’è il problema delle “false invalidità”: lo Stato dovrebbe aumentare i controlli su quella che è una vera piaga.
Questa lettera non è solo un grido di denuncia, ma vuole essere anche un inno alla vita e al rispetto della vita. È il mio amore per essa che mi spinge a scrivere ancora, nonostante sia stanca di lottare e di combattere per i diritti negati da una politica che pensa solo alla poltrona e ai propri stipendi, sempre più alti.
Eserciterò il mio diritto al voto, il 4 marzo, ma ammetto di avere perso la fiducia nei confronti di chi pensa esclusivamente al proprio interesse, a trascorrere una vita fatta di sprechi, nell’indifferenza per chi soffre. Non è un quadro semplicistico, ma una realtà, che ormai non fa più scalpore.
Invito dunque gli uomini politici ad ospitare per una settimana un disabile gravissimo, con tutte le sue necessità di essere accompagnato in bagno, pulito, lavato e imboccato ventiquattr’ore su ventiquattro: solo allora si avrebbe la giusta cognizione di cosa serve a una persona con disabilità grave.
Li invito a toccare con mano cosa sia la sofferenza, cosa significhi essere meno fortunati e a considerare le persone con disabilità non come un numero, ma come singole persone, ognuna delle quali con un volto, un nome, una storia di dolore alle spalle, un futuro di fede.
Il mio nome è qui in calce, ho raccontato la mia storia. Ora per voi non sono più un numero, una tra le tante: sono Marietta e do voce alle persone che, come me, devono lottare per conquistare, giorno dopo giorno, una vita dignitosa.
La vita di ognuno può cambiare in un secondo e tutti potrebbero trovarsi a vivere sulla propria pelle l’esperienza di una sofferenza che rende impotenti. Questa consapevolezza non deve spaventare, ma dovrebbe spingere ciascuno di noi a lavorare per costruire una società più giusta e solidale.
Le Istituzioni non possono eliminare la sofferenza e il dolore, ma senza dubbio devono tutelare i più deboli e cogliere quelle sfide importanti che, se non hanno risposte concrete e immediate, alimentano ogni giorno di più, paura, disagio e disperazione.
Se volete contattarmi, vi prego di scrivermi all’indirizzo orianaramunno@hotmail.it che, come potete intuire, è l’indirizzo della persona che dovrà prestarmi le mani per rispondervi. Sono certa di una vostra gentile risposta e di un impegno concreto per il futuro.