Presentato recentemente a Roma, il libro La mia ombra è un leone danzante (Gattomerlino Edizioni, 2018) di Laura Corbu suscita grande interesse sin dal titolo scelto. «Prose nette, lucide, che ripugnano all’autocompiacimento, all’autocommiserazione – scrive nella Postfazione Piera Mattei, giornalista, scrittrice e poetessa -. Si avverte l’orgoglio, la certezza che se da una parte c’è stata e c’è tuttora una difficoltà relazionale, dall’altra per compensazione, quasi nascendo dalla stessa difficoltà psicofisica a comunicare, si è sviluppata una capacità introspettiva e la possibilità di arrivare a una intima conoscenza della parola scritta e “pensata”».
Insieme alla stessa Mattei, hanno partecipato alla presentazione di Roma Francesca Farina, insegnante, scrittrice, poetessa e critico letterario, Elio Pecora, poeta, scrittore e saggista e Sandro Montanari, dottore di ricerca, psicoterapeuta, psicologo e giudice onorario della Sezione Minorenni della Corte d’Appello di Roma. Accogliamo e ben volentieri pubblichiamo le riflessioni ricevute da quest’ultimo.
«Potrei scriverti mille poesie ma non lo farò. Il mio cuore non è in un foglio. Il mio cuore non è una parola» (Laura Corbu, La mia ombra è un leone danzante, p. 72).
Ho iniziato a leggere il libro di Laura Corbu mentre mi trovavo nell’antica Monterano, la “città fantasma” non distante da Roma. Avevo percorso un sentiero nel bosco e improvvisamente si sono stagliati innanzi a me, lasciandomi senza fiato, i ruderi dell’acquedotto con i suoi vertiginosi archi e la città abbandonata nella quale, per una delle strane coincidenze che il destino ama tanto, ho sostato all’ombra della maestosa statua del leone [l’abbandono pare sia stato causato dai saccheggi subiti da truppe francesi, ai quali seguì un’epidemia di malaria. La scultura del leone, posta sulla sommità di una fontana, è opera di Gian Lorenzo Bernini, N.d.A.].
In questo magico posto ho provato tutte le forti emozioni dettate dal fascino delle rovine, emozioni che si fondevano con la meraviglia e la malinconia suscitate dalla lettura del libro.
L’Autrice, infatti, dischiude con autenticità e naturalezza il suo mondo interno e lo esprime senza filtri attraverso lo strumento, a lei congeniale, della scrittura.
Racconta con trasporto i rapporti sentimentali e amicali, i rapporti coi bambini, i rapporti coi genitori. Descrive con altrettanta efficacia l’impotenza, la rabbia e il senso di solitudine che si prova di fronte a barriere sociali e culturali che emarginano la persona sofferente e la costringono a sentirsi diversa, a chiudersi in se stessa per proteggersi e per non subire ferite che dissanguano l’anima (mi riferisco, ad esempio, a certe espressioni di una professoressa, che poi vennero riprese dai compagni di classe per denigrare Laura; oppure all’episodio della maestra che le tira un orecchio perché aveva scritto “Terra” con la t minuscola: «la scuola mi umiliava ogni giorno»).
Ad un certo punto della sua vita, Laura Corbu diventa “invisibile”, non parla, si tiene tutto dentro, passa le giornate in silenzio nascondendosi nel mondo della fantasia.
«C’è una tale diffidenza verso la diversità, quello che non riusciamo a comprendere facciamo presto a giudicarlo insensato» (p. 70).
La sua è una scrittura vera, che segue i guizzi delle passioni vissute, una scrittura con una struttura metrica che, nelle sue più profonde risonanze, sembra richiamare certe espressioni jazz. È una metrica frutto di un originale dialogo tra aspetti della vita cosciente, scanditi da ritmi regolari e conosciuti e da abitudini stratificate negli anni, e vita inconscia ove il tempo e lo spazio non rispondono alle leggi della fisica, ove prende forma l’inconoscibile e la follia. In particolare, narrazioni lineari della vita quotidiana entrano in interazione con le dissonanze dei deliri vissuti dalla protagonista, che cambiano velocità al racconto e che, a volte, lasciano il lettore in sospeso tra due dimensioni i cui confini sono permeabili.
«Credo che la sofferenza mi abbia portato al limite; quel limite che separa la vita dalla morte» (p. 42).
L’Autrice ci immerge nel suo mondo popolato di fantasmi, nel quale si rifugia per sottrarsi a una realtà insopportabile, offrendoci la possibilità di percepire i fili sottili del dolore che orientano certi comportamenti i quali, pertanto, da apparentemente incomprensibili assumono significati profondi.
«La malattia non è un capriccio, ma in molti non lo capiscono» (p. 78).
Il senso di smarrimento, la sensazione viscerale di stupore che si prova nel leggere questo testo è il riflesso dell’incontro con le parti buie, con le parti fragili che l’Autrice ha il coraggio e la forza di svelare attraverso un doppio movimento di immersione e emersione dalla massa oscura, dal caos informe che agisce nell’inconscio.
Laura Corbu lotta contro i mostri (a pagina 95 del libro è un «mostro a sei zampe e dieci occhi», che lei chiama disistima), contro la morte. Con la forza della disperazione risale in superficie. Solo dopo essere risalita dal caos, dopo avere acquisito una maggiore consapevolezza di sé, pone dei confini alla follia. E lo fa con la scrittura. La scrittura nasce dunque dal bisogno di risignificare il dolore. Il dolore da massa informe, che schiaccia l’esistenza, si trasforma in immagini e pensieri e si fa più digeribile.
In questo senso, la scrittura diventa riparazione interiore, in quanto basata su due fondamentali lavori mentali: distacco dal passato e, nel contempo, mantenimento di una relazione di continuità con lo stesso. Con la scrittura Laura Corbu dà ordine alle cose, separa il mondo interno dal mondo esterno, se stessa dagli altri, la realtà dalla fantasia. Così come nella mitologia il cosmo viene creato a partire dal caos attraverso l’atto della separazione (luce dalle tenebre, terra dal cielo, le acque dalla terraferma…), l’Autrice, attraverso l’atto del separare, cerca la verità e offre alla sua esistenza una direzione evolutiva, inscrivendola in una dimensione progettuale di cui questo libro è una preziosa testimonianza.
«Non esiste libertà senza verità» (p. 85): si intuisce allora come la vita non sia un mero susseguirsi di episodi e emozioni, ma, innanzitutto, ricerca di senso.
Il risultato di questo processo di ricerca è un sentiero impervio, a tratti coperto di fiori leggeri – come le esperienze con i bambini in ludoteca – che si inoltra nel bosco rappresentato dalla storia dell’Autrice, un sentiero che, accanto alle ombre e ai ruderi, lascia comunque filtrare, tra i racconti della vita vissuta, la luce della speranza.
«Io posso amare. Posso lasciare il segno» (p. 103). Sì, puoi amare, perché l’amore nasce dalla fragilità, puoi lasciare il segno, cara Laura, e un segno lo hai già lasciato, perché questo libro è un dono per tutti noi, ci fai scoprire che dietro l’apparente follia di certi comportamenti, c’è una persona con il suo mondo palpitante. Ci fai scoprire che anche il silenzio è messaggio e che saperlo cogliere può aiutarci a scorgere nell’altro i riflessi della nostra fragilità, fragilità che in fondo è la nostra radice e il nostro destino.
Solo la verità ci libera, solo se facciamo i conti con la nostra fragilità (senza negarla) possiamo diventare veramente noi stessi, disvelando la nostra più profonda umanità che ci accomuna agli altri da noi.
«Non voglio finire felice e contenta, voglio finire autentica» (p. 110), scrivi… e con poche pennellate tratteggi il percorso di una vita.
Ci insegni allora che dobbiamo impegnarci a spingerci al di là delle apparenze, che la parola non detta è a volte più importante della parola parlata, che per esprimersi la parola necessita del silenzio, che solo nel silenzio accogliente si può accarezzare la fragilità, che il silenzio è domanda che pretende risposta.
«Le albe sono spettacolari. Vengono dal buio, forse le amo per questo. Sono metafore di rinascita» (p. 80).
A questo link è disponibile un video della presentazione di Roma del libro di Laura Corbu, “La mia ombra è un leone danzante”.