Nell’ultimo mese sono stati pubblicati gli ultimi dati ISTAT sulla prevalenza dell’autismo negli scolari in Italia nel 2016-2017 e quelli dei CDC di Atlanta (Stati Uniti), riguardanti un’indagine eseguita nel 2014 sulla prevalenza dell’autismo fra i bambini di 8 anni in undici Stati degli USA [CDC sta per Centers for Disease Control and Prevention, ovvero “Centri per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie”, N.d.R.]. In entrambi i casi si registra una crescita della prevalenza, che meriterebbe, come scrivono dai CDC, anche un aumento delle attenzioni e delle risorse dedicate a questo problema.
Per quanto riguarda dunque il Rapporto ISTAT L’integrazione degli alunni con disabilità nelle scuole primarie e secondarie di primo grado – Anno Scolastico 2016-2017, si tratta dell’aggiornamento del Rapporto presentato nel dicembre del 2016, riguardante l’anno scolastico precedente (2015-2016).
I casi di autismo vengono definiti come “Disturbi dello sviluppo”, abbreviando la dizione “Disturbi generalizzati dello sviluppo” oppure quella “F 84: Disturbi evolutivi globali dello sviluppo psicologico”, così come ufficialmente definiti dall’ICD 10, la Classificazione internazionale delle malattie dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, oggi in vigore.
Nel Rapporto dell’ISTAT si scrive quindi: «Il disturbo generalizzato dello sviluppo è caratterizzato da una compromissione grave e generalizzata in diverse aree dello sviluppo: capacità di interazione sociale reciproca, capacità di comunicazione, o presenza di comportamenti, interessi e attività stereotipate. Della categoria fanno parte: disturbo autistico; disturbo di Rett; disturbo disintegrativo della fanciullezza; disturbo di Asperger; disturbo generalizzato dello sviluppo non altrimenti specificato (compreso l’autismo atipico)».
Si noti che la rilevazione dell’ISTAT comprende soltanto coloro che in base alla certificazione di cui alla Legge 104/92 ricevono un aiuto e che la maggior parte dei casi di sindrome di Asperger non ricevono alcun aiuto. Inoltre, le due classificazioni ISTAT dei disturbi “dell’attenzione e comportamentali” e “affettivo-relazionali”, che sono molto presenti fra i casi di disabilità, potrebbero attrarre casi per i quali si cerca di evitare di segnare la diagnosi di disturbi dello sviluppo, da identificare con l’autismo.
Tutto questo premesso, nel 2016-2017 questa disabilità riguardava:
23.000 casi, ovvero il 25,6% dei 90.000 alunni con disabilità nelle Scuole Primarie e 15.000 casi, il 21,7% dei 69.000 alunni con disabilità nelle Scuole Secondarie di Primo Grado. In totale 38.000 alunni, con una prevalenza dello 0,84% sul totale, in lieve aumento rispetto all’anno precedente, 2015-2016.
Ci si può pertanto attendere che si arriverà presto all’1% del totale degli alunni, così come individuato in una recente ricerca riguardante i casi di autismo in età tra i 7 e i 9 anni, condotta nella Provincia di Pisa all’interno del progetto europeo ASDEU (Autism Spectrum Disorder in European Union), che si avvale della collaborazione della scuola per non “smarrire” diversi casi altrimenti sfuggenti (di ASDEU si legga ampiamente su queste stesse pagine).
È interessante a questo punto constatare che se la prevalenza media dei Paesi europei si colloca sull’1%, in Islanda essa supera il 2,6% (se ne legga in The research into autism prevalence, in «Link», magazine di Autism Europe, n. 68, 2017, pp. 5-6).
Il dato dell’1% è comunque molto superiore a quello derivato dal Registro del Sistema Informativo della SINPIA-ER (Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza dell’Emilia Romagna), che per l’anno 2016 riportava una prevalenza pari allo 0,44% nell’età tra i 6 e i 10 anni, quella che comprende cioè l’intervallo tra i 7 e i 9 anni di ASDEU, con il quale è confrontabile.
Il valore assoluto della prevalenza dell’autismo in carico ai servizi della Neuropsichiatria Infantile in Emilia Romagna è raddoppiato dal 2011 al 2017 ed è facile prevedere che aumenterà ancora, dato che nella classe di età inferiore, quella fra i 3 e i 5 anni, la prevalenza al 2016 era dello 0,53% (si confronti a tal proposito la Relazione PRIA-Programma regionale integrato per l’assistenza territoriale alle persone con disturbo dello spettro autistico per l’anno 2016, Regione Emilia-Romagna, Direzione Generale Cura della Persona, Area Salute Mentale, Bologna, 2018).
Per quanto poi riguarda i CDC di Atlanta, nei giorni scorsi, come detto, è stato reso noto il risultato di un’indagine eseguita nel 2014 sulla prevalenza dell’autismo fra i bambini di 8 anni negli Stati Uniti.
Questa indagine viene effettuata dal 2000 ogni due anni sui bambini con autismo di 8 anni, in undici diversi Stati degli USA, avvalendosi della collaborazione della scuola e degli altri servizi di cura.
Qui la prevalenza dell’autismo è passata dallo 0,75% nel 2000 all’1,5% nel 2010, dato confermato nel 2012. Nel 2014, poi, vi è stata una ripresa dell’aumento registrato negli anni precedenti e la prevalenza è aumentata all’1,68%, pari cioè a un bambino ogni 59.
Il risultato del 2014 era molto atteso, perché nel 2013 gli Stati Uniti avevano adottato il DSM5 [“Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali”, N.d.R.], in sostituzione del DSM IV TR, e quest’ultima rilevazione ha utilizzato in parallelo sia la nuova che la vecchia versione del DSM stesso.
I risultati non sono stati sensibilmente discordanti, smentendo le previsioni di coloro che ipotizzavano un calo dei casi classificati con autismo, ad uso di risparmio delle risorse per le mutue e a danno di qualche persona con disabilità. Il difetto di nascondere l’entità dei problemi per ritardare l’adozione di congrui provvedimenti è tipico piuttosto del nostro Paese, dove si sente spesso ripetere che «gli americani esagerano sempre»… La serietà dei CDC, invece, non può essere messa in discussione e anzi si dovrebbe prendere ad esempio, utilizzandone la stessa metodica di rilevazione, che si fonda su due fasi distinte, in analogia a quella del progetto europeo ASDEU. Nella prima fase, infatti la scuola e tutti gli operatori sociali e sanitari collaborano per attuare una prima selezione, dopo la quale intervengono équipe specializzate, che mantengono l’omogeneità delle procedure di diagnosi.
Il campione, pur essendo molto vasto, non ha la pretesa di essere rappresentativo di tutti gli Stati Uniti. Permangono forti differenze fra un territorio e un altro, giacché intorno al valore medio generale di 1,68%, c’è in un intervallo che varia fra l’1,31% e il 2,93%.
I maschi sono quattro volte più numerosi delle femmine e la prevalenza fra i neri non ispanici è aumentata, elevando la media generale, ma non ha ancora raggiunto quella fra i bianchi non ispanici. In entrambi i due sottogruppi la prevalenza è maggiore che negli ispanici e si pensa che le condizioni culturali abbiano un loro peso.
Il Quoziente d’Intelligenza del campione è inferiore a 70 nel 31% dei casi e supera 85 nel 44%; il restante 25% è nella norma. Questa distribuzione resta ben lontana dalla percentuale di insufficienza mentale riscontrata nel nostro Paese fra i casi di autismo diagnosticato, perché qui “l’autismo dell’intelligente” non viene riconosciuto.
La conclusione della relazione americana dovrebbe valere anche nel nostro Paese, che a differenza degli Stati Uniti investe così poco sul futuro: questi dati, infatti, possono essere usati per la programmazione dei servizi, per guidare la ricerca sui fattori di rischio e sull’efficacia degli interventi, informando le politiche sanitarie e scolastiche, con l’obiettivo di giungere a migliori risultati a vantaggio di tutti.