Giorni fa sono stato alla Triennale di Milano. L’avviluppante gradinata esterna all’entrata del palazzo degli Anni Trenta si supera in scioltezza con una rampa laterale ben posizionata. Sono andato a vedere la mostra su Achille Castiglioni. Il palazzo da anni è accessibile alle persone con difficoltà di mobilità, ma l’esposizione è priva di requisiti d’accessibilità museale.
Uno dei pannelli all’imbocco della mostra su due piani dedicata al celebre architetto e progettista milanese riporta il suo invito a «progettare per un fruitore ignoto». Un concetto molto inclusivo, perché l’ignoto riconduce al chiunque, cioè a un tutti. Nel progettare per l’ignoto c’è la sintesi del creare ambienti destinati ad accogliere qualsiasi visitatore. Oggi si parla di Universal Design, di progettazione universale: realizzare prodotti e servizi destinati alla più vasta utenza possibile.
Introdotto dall’ottimo personale, entro con genitori al seguito. Benché con la carrozzina riesca a infilare le gambe sotto molte vetrine per potermi avvicinare al massimo al materiale esposto, il materiale è sovente steso sulla mensola dell’espositore. Mi perdo tutte le didascalie così esposte. E penso ai bambini. A chi non è troppo alto. Sarebbe bastato disporre il materiale in piano con un filo di pendenza.
Ben venga la scelta di caratteri di stampa ampi per le didascalie che vedo, quelle in verticale accanto al materiale appeso. Mentre i monitor che trasmettono spezzoni di discorsi del maestro fanno solo figo. Con il brusio di fondo l’audio è scarso e se fosse più alto disturberebbe. Basterebbero dei sottotitoli, molto utili alle persone sorde.
C’è una bella sala. Buia, illuminata da lampade ideate da Castiglioni. Si accendono con effetti scenici suggestivi e la voce dell’architetto che interviene ogni tanto. Una persona con problemi di udito rischia di perdersi un po’ di effetti e sarebbe bastato qualche monitor qua e là con le frasi e i rumori trascritti. Ovviamente nel rispetto dell’atmosfera voluta dall’allestitore.
Entrando rischio di andare addosso alla gente che si impala d’improvviso. Certi non pensano agli altri. Gli allestitori dovrebbero saperlo e ripensare alcuni spazi salienti.
Bene gli assistenti, di cui non intuisco la funzione, ma danno sicurezza e l’impressione di poterti cacciare dai guai sempre.
Allo sbocco della stanza c’è la scala che porta di sopra. All’entrata mi avevano avvisato di chiamare quando avrei finito il percorso per condurmi all’ascensore, ma come capire la fine del percorso prima di esserci arrivati? Se un’indicazione citasse la stanza buia come ultima o l’approssimarsi della scala fosse segnalato in qualche modo da dentro la stanza, si agevolerebbe la visita del pubblico che non ama le scale. E si eliminerebbe il flusso di persone di ritorno dalla indesiderata scala in contromano con quello in afflusso.
Mia madre è stanca. È temporaneamente disabile per i postumi di un intervento al piede e ha bisogno di una sedia. La chiediamo agli assistenti mentre usciamo dalla visita al pianterreno e il personale ancora una volta si dimostra squisito. Ci procurano una sedia a rotelle e propongono a mia madre di spingerla per visitare il piano superiore. Mia madre declina l’offerta e aspetta lì, in carrozzina.
Garbatamente condotto all’ascensore con mio padre, scambio qualche battuta con la graziosa accompagnatrice. Le accenno dei problemi di accessibilità alla mostra e mi chiede se ho trovato gradini. Evinco che non ne sa nulla di accessibilità museale.
Intanto siamo arrivati e dobbiamo abbandonarci senza spiegazioni, ma la comprendo. Comprendo meno gli allestitori che trascurano le Linee Guida per l’accessibilità ai beni culturali. Disposizioni che fanno riferimento alla progettazione universale e hanno chiare indicazioni per le sedi espositive. Si possono scaricare cliccando qui.
A voler essere raffinati esistono anche Linee Guida per redigere un piano per l’eliminazione delle barriere architettoniche nei musei, complessi monumentali, aree e parchi archeologici (scaricabile cliccando qui). La Triennale non è un museo, almeno nella sezione della mostra al Castiglioni. Ma esporre con criterio aiuta.
Al piano di sopra non tutti gli espositori sono avvicinabili. Alcuni sono troppo alti e non si vede molto. Bisognerebbe progettare espositori ad altezza variabile, non credo che la tecnologia manchi. I soliti monitor belli e impossibili. Il culmine è una didascalia stampata su una colonna portante e squadrata. È messa d’angolo e per leggerla bisogna posizionarsi in modo da vedere entrambi i lati della colonna. Ogni frase inizia su un lato e finisce sull’altro. Solo a spiegarlo c’è da confondersi.
Torniamo giù. Mia madre ci racconta di avere scambiato qualche chiacchiera con una brava ragazza del personale quando era libera dai suoi impegni. Anche questo è il suo mestiere: mettere a proprio agio il visitatore. Ottima l’accoglienza in Triennale. Ma il bravo personale non basta.
Senza un approccio universale all’allestimento di una mostra alcuni ne restano tagliati fuori, non solo disabili che non pagano il biglietto. E purtroppo la Triennale non è l’eccezione, è la regola. Le mostre accessibili sono rarità. Peccato, siamo un Paese che ha bisogno di cultura.
Testo già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Achille Castiglioni in Triennale, la buona accoglienza non basta”) e qui ripreso – con minimi riadattamenti al diverso contenitore – per gentile concessione.
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