La Convenzione di Istanbul e la violenza sulle donne con disabilità

di Simona Lancioni*
Il 29 ottobre è stato trasmesso al “GREVIO” (il Gruppo di esperti/e sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica del Consiglio d’Europa) il “Rapporto delle Associazioni di donne sull’attuazione della Convenzione di Istanbul in Italia” (“Rapporto ombra”), riferito appunto alla Convenzione di Istanbul, trattato ratificato dall’Italia nel 2013, sulla prevenzione e la lotta alla violenza nei confronti delle donne e alla violenza domestica. In quel Rapporto le esigenze delle donne con disabilità vittime di violenza trovano certamente un’apprezzabile attenzione
Disegno "Donna nel vento"
“Donna nel vento”

L’articolo 66 della Convenzione di Istanbul (Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica del 2011, ratificata dall’Italia con la Legge 77/13) prevede, quale meccanismo di controllo, l’istituzione di un Gruppo di esperti/e sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Group of Experts on Action against Violence against Women and Domestic Violence, in acronimo “GREVIO“), incaricato di vigilare sull’attuazione della Convenzione in questione da parte degli Stati che l’hanno sottoscritta.

Lo scorso 29 ottobre è stato trasmesso al GREVIO il Rapporto delle Associazioni di donne sull’attuazione della Convenzione di Istanbul in Italia. Poiché esso vuole fornire un punto di vista diverso e alternativo rispetto a quello espresso dal Governo nel suo Rapporto ufficiale, quello prodotto dalle Associazioni di donne viene anche definito come “Rapporto ombra”.
Esso si propone di evidenziare le criticità riscontrate nell’attuazione della Convenzione di Istanbul, ma anche di essere uno strumento di lavoro e interlocuzione con i/le componenti del GREVIO. Curatrici dell’opera sono Elena Biaggioni e Marcella Pirrone, entrambe avvocate del D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza). La redazione è composta da oltre trenta tra Associazioni ed esperte attive sui temi della violenza di genere.

Poiché nel 2016 l’Italia è stata richiamata dal Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (l’organo incaricato di verificare l’applicazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dall’Italia con la Legge 18/09), per l’assenza di politiche rivolte alle ragazze ed alle donne con disabilità (punti 13 e 14), e in particolare per inadempienze rispetto al fenomeno della violenza nei loro confronti (punti 43 e 44), abbiamo ritenuto interessante verificare se e in che misura questo “Rapporto ombra” abbia tenuto in considerazione le esigenze delle donne e delle ragazze con disabilità.
Un primo indizio induce a ipotizzare che questa volta le donne e le ragazze con disabilità non saranno così invisibili; della redazione, infatti, fanno parte, tra le altre, tre figure con comprovata esperienza ed elevate e specifiche competenze sui temi della disabilità, quali Luisella Bosisio Fazzi, attivista dei diritti umani di DPI (Disabled Peoples’ International), Giampiero Griffo, membro del Consiglio mondiale di DPI e Donata Vivanti, advocate, presidente della FISH Toscana (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), ovvero il Comitato di Redazione del FID (Forum Italiano sulla Disabilità), che si occupa dei rapporti alternativi sulle Convenzioni per i diritti umani dell’ONU.

Già nell’introduzione del documento viene segnalato il «vuoto riguardante la condizione delle ragazze e delle donne con disabilità». «Generalmente – si scrive infatti – nelle analisi riguardanti la condizione di disabilità il genere non viene mai considerato. Questa irrilevanza del genere è causa ma anche effetto di una assenza di elementi per esplorare ed analizzare l’influenza che il genere ha sulle donne con disabilità. Tutto ciò ha portato ad una mancanza di interesse nel pensare alle necessità specifiche delle ragazze e delle donne con disabilità e quindi nel produrre analisi e riflessioni, nel progettare interventi e prassi, nel proporre politiche ed azioni specifiche in tutti gli ambiti della loro vita» (pagina 1, grassetto nostro nella citazione).

Riguardo al tema delle politiche integrate, si rileva che nell’ordinamento giuridico italiano non esiste una normativa specifica a tutela delle ragazze e delle donne con disabilità. «Si applica pertanto la normativa sulle pari opportunità e parità di trattamento di genere tra uomo e donna e la normativa specifica per la condizione di disabilità. Ciò significa che nessuna norma, politica, misura od azione a favore dell’uguaglianza di genere include specifici riferimenti alle ragazze ed alle donne con disabilità mentre nessuna prospettiva di genere viene adottata nello sviluppo e nell’applicazione di norme, azioni e programmi relativi alla condizione di disabilità» (pagina 6).
Seguono diversi esempi di Leggi, Piani, Rapporti e Relazioni in tema di violenza, nei quali l’attenzione specifica alle donne e alle ragazze con disabilità è nulla o residuale.
Vengono inoltre riportati gli espliciti richiami che pongono l’attenzione sulle donne con disabilità espressi nel 2017 dal Comitato del CEDAW, la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (ratificata dall’Italia con la Legge 132/85), quelli del 2016 del già citato Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, e quelli del 2012 contenuti nel Rapporto sull’Italia della Relatrice Speciale sulla Violenza contro le donne, nel quale si può leggere: «Le donne con disabilità sono state a lungo viste come destinatarie passive di assistenza. Lo Stato, la società e persino i familiari percepiscono le donne con disabilità nel migliore dei casi come soggetti invisibili, nel peggiore dei casi un peso. Le ragazze e le donne con disabilità tendono spesso ad essere educate verso modelli stereotipati che le relega in ruoli di dipendenza e di necessità di cure. Addirittura, la loro educazione viene considerata se non difficile e non necessaria. Questa percezione le conduce a livelli molto bassi nei sistemi educative e di conseguenza se inserite nel mondo del lavoro in funzioni subordinate. […] L’indagine ISTAT 2006 sulla Violenza contro le donne dentro e fuori dalla famiglia è la più recente fonte statistica sul fenomeno. La sua limitatezza deriva dal fatto che non riflette appieno il fenomeno perché non rileva accuratamente la prevalenza della violenza contro le donne e non include dati sulle donne con disabilità» (pagina 8, grassetti nostri nella citazione).

Nel 2016 il Dipartimento delle Pari Opportunità ha siglato con l’ISTAT un protocollo d’intesa, con l’obiettivo di sviluppare e realizzare un sistema informativo definito Banca dati sulla violenza di genere, allo scopo di fornire informazioni statistiche validate e continuative agli organi di Governo e a tutti i soggetti pubblici e privati coinvolti nel contrasto alla violenza di genere.
Rispetto a tale proposito, il “Rapporto ombra” chiede che sia obbligatoria anche la raccolta di dati sulla violenza di genere disaggregati sulla base di disabilità, e che vengano altresì rilevate «l’eventuale condizione di disabilità della vittima di violenza e la sua relazione con l’autore o gli autori della violenza, e le forme di violenza specifiche nei confronti delle donne con disabilità, come la sterilizzazione forzata, che pare ancora usata in Italia come strumento di “protezione”, spesso richiesta dai familiari, benché non esistano altri dati, anche per la reticenza di chi la pratica e il camuffamento dell’intervento con altre giustificazioni mediche (endoscopie, biopsie, ecc.)» (pagina 10, grassetti nostri nella citazione).
L’esigenza di creare un sistema integrato di rilevazione dei dati – anche giudiziari – che superi la frammentarietà e la parzialità delle informazioni, generi flussi strutturati d’informazioni fruibili a livello nazionale e locale è considerata urgente, ed è richiesto che tali dati siano «disaggregati per le diverse condizioni, in particolare per presenza di disabilità» (pagina 13).

In tema poi di prevenzione, il “Rapporto ombra” segnala come il sessismo non risparmi «le donne con disabilità, anzi le rende doppiamente vittime: se la donna è spesso vista come un “oggetto”, il fatto di essere disabile la rende un oggetto difettoso di nessun valore» (pagina 14).
Si segnala inoltre che «nessuna campagna nazionale di sensibilizzazione sulla discriminazione di genere e sulla violenza contro le donne include le donne e le ragazze con disabilità. Nemmeno il Piano d’azione nazionale sulla disabilità prevede azioni di sensibilizzazione volte al pieno riconoscimento del loro valore umano e della loro dignità» (pagina 16, grassetto nostro nella citazione). Da ciò la raccomandazione che, con urgenza, «il governo italiano promuova e finanzi campagne di sensibilizzazione con particolare riferimento ai piani di intervento educativo dentro e fuori le scuole a partire dall’infanzia e per tutti gli ordini di scuola, tenendo conto anche dell’intersezionalità della dimensione del genere con la condizione di disabilità» (pagina 18, grassetto nostro nella citazione).
Spesso manca negli operatori dei servizi di consulenza e di emergenza la consapevolezza del rischio a cui sono esposte le donne con disabilità «perché non conoscono la condizione di disabilità o perché non riconoscono, mancando di strumenti culturali e tecnici, l’abuso come violento ed associato alla disabilità. Il rischio di cattiva interpretazione dei segni di violenza è ridotto quando gli operatori hanno frequentato specifici corsi di formazione» (pagina 20). Da ciò la richiesta – per questi operatori e per tutti quelli coinvolti nei percorsi antiviolenza – di una formazione specifica (che deve comprendere fra le condizioni a maggior rischio di violenza la disabilità, soprattutto se sono presenti necessità di comunicazione e sostegno elevate), continuativa, obbligatoria e strutturale e non, come accade attualmente, estemporanea o occasionale, con interventi di poche ore fatti giusto per poter dire di averli realizzati.

Riguardo ancora alla protezione e al sostegno delle vittime, si riportano i dati ISTAT relativi al 2014: «Ha subìto violenze fisiche o sessuali il 36% di chi è in cattive condizioni di salute e il 36,6% di chi ha limitazioni gravi, a fronte dell’11,3% della popolazione femminile generale. Il rischio di subire stupri o tentati stupri è doppio (10% contro 4,7% delle donne senza problemi). Le forme più gravi di violenza sono esercitate da partner, parenti, amici o conoscenti. Spesso purtroppo sono proprio gli uomini che si prendono cura di queste donne ad approfittare di loro. Per questo motivo e per la difficoltà delle donne con disabilità psichica/intellettiva non solo a denunciare, ma persino a riconoscere come tali le violenze subite in ambiente domestico, la violenza domestica sulle donne con disabilità, e in particolare disabilità psichica o intellettiva, non viene quasi mai denunciata (solo nel 10% dei casi). Inoltre, le violenze domestiche nei loro confronti possono essere percepite come forme di educazione e correzione di comportamenti inadeguati» (pagina 24, grassetti nostri nella citazione).
Se in Italia è ancora diffuso un atteggiamento che tende a mettere costantemente in discussione la credibilità delle donne vittime di violenza, anche su questo fronte le donne con disabilità sono maggiormente penalizzate perché «spesso ritenute “incapaci di intendere” e inattendibili.
Per di più le donne con disabilità psichica/intellettiva con maggiori necessità di sostegno possono essere prive di personalità giuridica, in quanto soggette agli istituti giuridici della tutela o della curatela, mai aboliti in Italia. […] Le donne con disabilità, specie se hanno necessità elevate di sostegno, sono più esposte alle violenze domestiche, a causa dell’isolamento in cui vivono, della permanenza forzata in famiglia in età adulta, delle maggiori difficoltà di trovare casa e di accesso all’istruzione superiore, alla formazione professionale e a un’occupazione retribuita. […] Le informazioni sui propri diritti e lo strumento della denuncia sono praticamente inaccessibili alle donne con disabilità psico-sociali, oltre che a quelle con disabilità intellettive o sensoriali che utilizzano forme di comunicazione alternative. Il rischio di vittimizzazione secondaria nel tentativo di uscire dalla violenza da parte della donna, e ancor più della donna con disabilità, è alto e riguarda più di un attore coinvolto nei percorsi di uscita dalla violenza, dai servizi sociale e sanitario, alle forze dell’ordine e al sistema giudiziario» (pagine 24-25, grassetti nostri nella citazione).
Anche su questo fronte si raccomanda una formazione specifica, per evitare la vittimizzazione secondaria, oltreché una comunicazione tempestiva e comprensibile sui diritti, i servizi di supporto e sui percorsi praticabili, anche attraverso l’uso di modalità di comunicazione appropriate a donne con disabilità intellettive e sensoriali (formato facile da leggere, lingua dei segni, Braille, ecc.).

In ordine, infine, ai procedimenti penali, viene evidenziata la mancanza, nella Magistratura e negli organi di Polizia Giudiziaria, di personale formato ad ascoltare le donne vittime di violenza con disabilità intellettive o sensoriali che utilizzano strumenti di comunicazione diversi da quello verbale. Si rileva inoltre che «la condizione di disabilità è identificata in modo restrittivo e lesivo della dignità e del valore della persona come “stato di infermità o di deficienza psichica”, deve essere ancora delineata e precisata dalla giurisprudenza, come pure le modalità protette da adottare, e non trovano applicazione, se non residuale, le cautele previste per la loro protezione» (pagina 47).

Questi sono, in linea di massima, i passaggi più rilevanti nei quali è presa in considerazione la particolare situazione delle donne con disabilità vittime di violenza, anche se, per onestà intellettuale, va segnalata la presenza di ulteriori richiami al tema in questione, sebbene di minore rilievo rispetto a quelli che abbiamo cercato di riassumere in questo spazio.
Sembra di poter affermare che, nel complesso, il “Rapporto ombra” abbia prestato un’apprezzabile attenzione alle esigenze delle donne con disabilità vittime di violenza, e che le considerazioni espresse siano condivisibili ed esposte in modo corretto.
Se una lacuna va trovata nei contenuti, mi sembra manchi una riflessione specifica sull’accessibilità fisica degli ambienti alle donne con disabilità motoria (centri antiviolenza, case rifugio, stazioni di polizia, tribunali…); sarebbe stato utile raccomandare, ad esempio, la realizzazione di una mappa delle case rifugio accessibili, e la predisposizione di un piano di abbattimento delle barriere per quelle non accessibili (se non di tutte, almeno di una data percentuale di esse), ma tutto ciò non inficia il valore complessivo dell’opera, che rimane comunque elevato.

Mentre mi accingo a chiudere questo approfondimento, attrae la mia attenzione un altro elemento: scorro la lista dei nomi delle persone che hanno collaborato alla stesura del “Rapporto ombra” e non trovo nessuna donna con disabilità (se mi fosse sfuggita, vi prego di segnalarmela). Non credo sia un caso. Penso quindi che in Italia non attribuiamo sufficiente importanza dell’autorappresentazione delle donne con disabilità, e che dovremmo lavorare di più per invertire questa tendenza.

Responsabile di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli, Peccioli (Pisa), nel cui sito il presente approfondimento è già apparso. Viene qui ripreso – con minimi riadattamenti al diverso contenitore – insieme anche all’immagine utilizzata nel testo originale, per gentile concessione.

Per approfondire ulteriormente il tema Donne e disabilità, fare riferimento al lungo elenco di testi da noi pubblicati, presente a questo link, nella colonnina a destra dell’articolo intitolato Voci di donne ancora sovrastate, se non zittite, oltreché alla Sezione Donne con disabilità nel sito di Informare un’h. Sullo specifico tema della violenza, inoltre, accedere sempre al sito di Informare un’h, all’altra Sezione intitolata La violenza nei confronti delle donne con disabilità.

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