Il vociare dei bambini richiamava la mia attenzione. Affacciato alla finestra seguivo con lo sguardo una frotta di bambini vociante che seguiva uno strano personaggio che ogni settimana arrivava nella nostra contrada. Il suo camminare goffo, dovuto probabilmente a una malformazione ad una gamba, suscitava lo scherno e la derisione dei bambini accorsi dalle case per seguirlo e scimmiottarne la camminata. Lo chiamavano Pin Gnock (“stupido”, nel dialetto lombardo).
Come dicevo, ogni quindici giorni passava di lì, appoggiandosi a un bastone, sorreggendo una valigia di cartone piena di oggetti di merceria: lacci per scarpe, spolette di filo, lamette da barba. Le donne, richiamate dal vociare, uscivano dalle loro case e si affrettavano ad acquistare, spendendo i pochi spiccioli di cui disponevano. Terminato il misero commercio. si incamminava verso l’uscita della contrada, accompagnato dal vociare dei bambini, momentaneamente acquietati dalla presenza delle madri.
Un altro personaggio raggiungeva di tanto in tanto le nostre case, lo chiamavamo Cinto. Era un uomo semplice. Sempre con un sorriso stampato in viso. Sorrideva anche ai bambini che lo schernivano. Nella bella stagione aiutava i contadini nei campi, in cambio di un pezzo di polenta o di un piatto di minestra. Un giorno lo trovarono morto in un casolare abbandonato, dove alla sera si rifugiava. Mi fece tristezza non vederlo più apparire in cima alla via con il suo incedere lento e goffo.
E c’era poi anche chi scompariva dalla vita della contrada, per essere rinchiuso in un riformatorio, come successe ad un mio compagno di giochi, di cui non ho mai più avuto notizie.
Quelli che allora chiamavano “subnormali” vivevano relegati in ville misteriose circondate da mura, e dai bisbigli della gente o nei manicomi. I più vivevano nascosti in casa, passando il tempo dietro i vetri di una finestra, per ritrarsi quando si accorgevano di essere visti dalla strada.
Quando fu aperto il Centro per Handicappati di Lecco, nel 1972, giravamo per i paesi alla ricerca di utenti. Un giorno, un uomo molto semplice ci accompagnò sul retro della sua casa, dove trovammo un giovane seduto dentro il pollaio, intento a guardare le galline. Aveva gli occhi buoni, e rispondeva con gesti e suoni sommessi. Sulle spalle magre si ergeva una testa sproporzionata, calva e piena di croste. Il padre ci disse che lì era al sicuro, e che a lui piaceva.
Quante vite ingiuste! Quanti ricordi di compagni di viaggio mai dimenticati dalla mia generazione che aveva vissuto nell’Italia rurale e povera del dopoguerra. Quel poco di tessuto industriale esistente era rappresentato dalla siderurgia e dal tessile. Fabbriche in cui le persone con disabilità avevano scarse possibilità di accesso. I pochi che vi lavoravano erano invalidi del lavoro o mutilati tornati dal fronte. Solo quei lavoratori con una disabilità fisica potevano lavorare in quegli ambienti disagevoli per tutti. La “fortuna di lavorare” era dovuta alla raccomandazione di un personaggio in vista del paese il quale, richiamandosi alla carità cristiana, ne chiedeva l’assunzione.
Solo nel 1968 il Legislatore decise di prendere provvedimenti a tutela del diritto al lavoro per le persone con disabilità. Nacque così la Legge 482/68. Le aziende con oltre 35 dipendenti erano obbligate ad assumere il 15% di lavoratori disabili suddivisi in varie categorie (25% invalidi di guerra, 15% invalidi del lavoro, 15% invalidi civili ecc.).
I lavoratori disabili venivano progressivamente avviati al lavoro d’ufficio, prescindendo da qualsiasi valutazione di compatibilità. Ci vollero trent’anni affinché questa normativa, impositiva e burocratica, invisa a tutti, fosse abrogata.
Era infatti il 1999, quando finalmente venne varata la Legge 68/99, Norme per il diritto al lavoro dei disabili, che introduceva il concetto di inserimento mirato, ovvero “la persona giusta al posto giusto”. «Per collocamento mirato – vi si scrive – si intende quella serie di strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto attraverso analisi dei posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzione di problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi quotidiani di lavoro e di relazione».
Oggi il mondo è completamente cambiato. Ci sono state innumerevoli conquiste e la cultura nei confronti della disabilità è evoluta positivamente. Nonostante la crisi economica, si è cercato di favorire l’inclusione lavorativa attraverso la presa in carico della singola persona, il progetto individualizzato, il percorso di accompagnamento al lavoro e il mantenimento del posto di lavoro. Si sta passando da un diritto astratto al lavoro alla personalizzazione dell’intervento. Le aziende, dal canto loro, si sono in parte aperte al tema e hanno cercato di assolvere gli obblighi di legge e di gestire al meglio gli inserimenti.
Purtroppo ora ci troviamo in una fase in cui i valori collettivi si stanno affievolendo. Ci stiamo addentrando rapidamente in una società sempre più individualista, dove qualsiasi forma di diversità viene mal sopportata o addirittura rifiutata. Si diffonde sempre più l’atteggiamento sociale di rimozione di ciò che turba la falsa normalità. La morte, la malattia, la fame, la miseria e anche la disabilità vengono esorcizzate come cose che appartengono agli altri e a cui “noi non siamo esposti”. Viviamo in un mondo di false relazioni, perennemente connessi, senza riuscire a supplire alla propria solitudine. Quella solitudine che fa male, che produce ansia e paura e conduce alla depressione; quella solitudine consumata dentro le mura di casa che troppo spesso si traduce in dramma familiare.
Tutto ciò non faciliterà i processi di inclusione e il superamento delle diversità e spingerà ogni minoranza a rinchiudersi in se stessa in una difesa autarchica di gruppo. I cambiamenti in atto nella società, nel mondo del lavoro, nel mercato del lavoro e la crisi del welfare impongono una radicale rivisitazione delle strategie di inclusione e di collocamento. Se non riusciremo, come già sta avvenendo, verranno penalizzati i soggetti più deboli e assisteremo ad un ritorno al passato.
Purtroppo non potremo arginare la deriva attraverso eccellenti iniziative, buone prassi ecc. L’encomiabile sforzo volontaristico di molti, infatti, non potrà evitare il ripristinarsi di vecchi cliché e la rivisitazione di strutture speciali abbandonate da decenni.
L’attenzione rivolta alla tutela della salute, alla qualità di vita, alla partecipazione sociale, ha fatto scaturire di conseguenza la necessità di una sempre maggiore sensibilizzazione culturale rispetto a situazioni delicate e complesse, unitamente all’urgenza di un cambiamento culturale degli atteggiamenti comuni di fronte alla questione della disabilità, soprattutto nella fase di transizione scuola-lavoro e di ingresso nel mondo del lavoro.
Il rapporto con la scuola
Un giorno, un giovane con deficit cognitivo si presentò nel mio ufficio, accompagnato dalla madre. Durante il colloquio rimase in disparte con il capo reclino. A fatica cercai più volte di coinvolgerlo. Proposi un tirocinio presso una Cooperativa Sociale di tipo B, al fine di valutarne le reali potenzialità lavorative. La madre mi rispose che non gli aveva fatto acquisire, con tanta fatica, un attestato come Operatore d’ufficio, per vederlo finire «fra gli handicappati». Ci vollero tre anni di fallimenti e frustrazioni per vederli ritornare da me e riprendere il discorso a suo tempo interrotto.
Troppi si comportano in questo modo; è per questo che il percorso di inserimento al lavoro deve iniziare durante il periodo scolastico. La stessa scelta della scuola secondaria superiore deve prendere in considerazione la motivazione, le capacità e le potenzialità del ragazzo. Bisogna inoltre supportare la famiglia nella scelta, per evitare che subisca l’esposizione a pressioni e condizionamenti sociali, per evitare altresì – nel limite del possibile – di cadere nella trappola della normalizzazione.
Spesso il giovane trascorre gli anni della scuola superiore impegnandosi su apprendimenti teorici, senza sperimentarsi nelle abilità del fare, senza acquisire quei prerequisiti necessari per accedere al mondo del lavoro e favorire l’inserimento. Gli stessi stage rischiano sovente di essere una rappresentazione irreale di quello che è il mondo del lavoro e, nella maggior parte dei casi, non sono utili per l’orientamento e per la futura occupazione. Si corre spesso il rischio di ingenerare false aspettative nel giovane e nella famiglia. A volte è sufficiente la frequenza di un corso informatico, per illudere il genitore che il figlio possa essere assunto in un’azienda di programmatori.
Purtroppo il continuo e rapido mutare del mondo del lavoro che si intreccia con le trasformazioni sociali rende sempre più problematico il passaggio dello studente con disabilità dalla scuola alla vita adulta. Ne consegue una dilatazione dei tempi di attesa, un lungo periodo dove il disagio e l’ansia crescono parallelamente alla paura di non farcela. Infatti, un numero crescente di giovani con disabilità intellettiva fatica a trovare un’adeguata collocazione lavorativa. Le famiglie non conoscono il mercato del lavoro: come funziona, come si accede, quali sono le procedure e quali certificazioni servono, quali sono i servizi disponibili sul territorio. I rischi di una regressione verso soluzioni emarginanti impongono la costituzione di Servizi di Orientamento Socio-Lavorativo, per gli studenti con disabilità che frequentano l’ultimo anno del percorso scolastico.
La stessa citata Legge 68/99, che impone di operare, come detto, in coerenza con il principio del collocamento mirato, esalta la centralità della persona e la necessità di un progetto di integrazione socio-lavorativa personalizzato. È quindi necessario progettare iniziative che fungano da “ponte” tra il percorso scolastico/formativo e il mondo del lavoro.
L’orientamento dev’essere realizzato da un Servizio dotato di competenze professionali atte a valutare bisogni, attitudini e potenzialità del giovane e che sia in grado di prendere in carico il/la giovane, di affiancare la famiglia in un momento delicato come quello della transizione scuola/mondo del lavoro e di definire procedure e prassi che vedano il coinvolgimento di tutti i soggetti interessati (scuola, servizi sociali, socio-sanitari, associazioni ecc.).
Il rapporto con il mondo del lavoro
Le aziende hanno cercato in vari modi di reagire alla crisi economica e alle nuove esigenze di mercato. Le innovazioni introdotte hanno prodotto un radicale cambiamento nel modo di fare produzione e nei rapporti fra i vari soggetti coinvolti: imprenditori, lavoratori, sindacati ecc. Il mercato del lavoro si è a sua volta immediatamente adeguato e ricerca figure professionali in grado di offrire competenze tecniche e capacità di adattarle e trasformarle; flessibilità e duttilità ai cambiamenti; capacità di lavorare in situazione di stress; problem solving [“risoluzione di un problema”, N.d.R.] e così via.
Cresce quindi la complessità delle mansioni, l’esigenza di continui aggiornamenti, l’uso di impianti, attrezzature e macchinari tecnologicamente evoluti. Il mondo del lavoro diventa sempre più complesso e stressante. L’individualismo e la competitività si stanno diffondendo negli àmbiti di lavoro, così come l’incertezza verso il proprio futuro lavorativo.
Purtroppo questi aspetti complicano le possibilità di accesso e mantenimento del lavoro per i soggetti più deboli. Si corre pertanto il rischio di una regressione sociale e il fallimento delle politiche inclusive conquistate negli ultimi decenni. Ovviamente, non potendo trasformare l’economia e il mondo del lavoro, non ci resta che cambiare le strategie, i servizi e le modalità di azione di chi opera a favore dell’integrazione socio-lavorativa.
Tutto ciò è possibile attraverso una ripresa del concetto di “collocamento mirato” e un approccio operativo che ponga al centro dell’attenzione sia la persona con disabilità che l’azienda, attraverso un nuovo paradigma: «Non più dal disabile all’azienda, ma dall’azienda al disabile».
Invece, in un ventennio di applicazione della Legge 68/99, si è posta attenzione alla sola persona con disabilità, mentre le aziende sono rimaste “l’altra parte”, sconosciuta, isolata, spesso arroccata e a volte ostile alla disabilità. Hanno così reagito ricorrendo all’evasione degli obblighi o ricercando il “disabile-abile” da assumere. Dal canto loro, i servizi istituzionalmente preposti hanno continuato a rapportarsi con le aziende in termini impositivi burocratico-amministrativi e i servizi sociali e socio sanitari in modo empirico e scoordinato, ottenendo di conseguenza scarsi risultati e allontanando ulteriormente le aziende stesse. Tutto ciò, unito alla crisi economica, ha fatto si che il Collocamento Disabili fallisse nel compito istituzionale e sociale di collocare al lavoro le persone con disabilità a prescindere dalla loro disabilità.
E tuttavia, nonostante il trend negativo e le non rosee prospettive future, c’è ancora la possibilità di sostenere l’inclusione lavorativa, anche per i soggetti disabili più deboli. Troppe persone e troppe famiglie attendono da anni una proposta occupazionale. Tutti coloro che hanno una potenzialità lavorativa devono poter accedere al lavoro. Dobbiamo pertanto superare le barriere che si frappongono fra l’azienda e la disabilità intellettiva. È però necessario conoscere e comprendere le ragioni che spingono l’azienda a rifiutare la persona con disabilità intellettiva e trovare la giusta risposta.
Sappiamo quali sono le ragioni e i pregiudizi che si frappongono all’inserimento lavorativo. Alcune sono fondate. Chi vive od opera con le persone sa quali affermazioni sono vere e quali invece vengono pretestuosamente utilizzate, per giustificare i pregiudizi e il rifiuto.
È innegabile che nell’ultimo decennio gli ambienti di lavoro siano notevolmente cambiati e siano soggetti ad un continuo e rapido cambiamento. In azienda è venuta meno la solidarietà fra lavoratori, la presenza del sindacato è meno significativa. Le stesse Cooperative Sociali – nate originariamente per dare una risposta occupazionale proprio a questa categoria di disabilità – oggi sono restie ad inserire giovani con disabilità intellettiva. Il mercato e gli appalti pubblici le hanno costrette a una radicale trasformazione che ha coinvolto le mansioni disponibili e le categorie di svantaggio a cui dare una risposa occupazionale.
Per superare dunque le preclusioni soggettive e oggettive frapposte fra le persone con disabilità intellettiva e il lavoro, si deve attivare un cambiamento culturale, cercare nuove strategie, promuovere prassi operative efficaci e servizi in grado di usare un linguaggio comprensibile alle aziende.
Per fare questo, è utile operare in modo che le aziende, a prescindere dalle loro dimensioni, possano disporre di figure professionalmente preparate, per gestire il rapporto con i servizi del territorio e gli inserimenti lavorativi. Serve poi diffondere l’uso di strumenti normativi, contrattuali ed economici che possano facilitare l’ingresso e il mantenimento del posto di lavoro. E ancora, promuovere l’informazione e la diffusione di buone prassi, già realizzate efficacemente in alcuni territori e sperimentarne di nuove. Infine, formare e aggiornare il personale dei vari servizi, oltre a costituire delle Reti a Sistema che vedano la partecipazione di tutti i soggetti sociali interessati all’inclusione lavorativa.
In altre parole, per superare le difficoltà soggettive e oggettive esistenti tra le persone con disabilità intellettiva e il mondo del lavoro, si deve attivare un’inversione di tendenza e supportare le Cooperative Sociali e le aziende affinché possano offrire una maggior disponibilità. Le famiglie non possono essere lasciate sole a gestire un problema per loro insormontabile. Il futuro, come detto, non ci faciliterà, e tuttavia nuove opportunità e strumenti facilitatori possono agevolare i percorsi integrativi. Non è certo con atteggiamenti rinunciatari, passivi o conservativi che eviteremo sconfitte e ritorni al passato. Non possiamo permetterlo. Non possiamo permettercelo!