L’impensabile è diventato realtà. È accaduto nella civilissima e assolata California. Ad un signore ricoverato per accertamenti hanno detto che sarebbe arrivato un medico per fare il quadro della situazione. Nella stanza è entrato un robot con uno schermo sul petto. Dallo schermo, in videoconferenza, il medico che avrebbe dovuto essere lì in carne ed ossa, ha comunicato al paziente che non c’era nulla da fare: «Lei sta per morire, ci spiace». La famiglia si è indignata, l’ospedale ha risposto che è la prassi.
Mi è venuto da pensare. Pensare a quanto l’umanità, pur senza arrivare al caso-limite del robot, stia scomparendo nel rapporto con gli operatori sanitari, certo condizionati da un sistema che pensa all’efficienza e alla competitività, anziché privilegiare la vicinanza e l’ascolto, riflesso anche della società in cui viviamo.
Troppo impegnativo fermarsi un attimo, aprire le orecchie, ma soprattutto il cuore, a chi magari non ha il dono di una salute di ferro e avrebbe il desiderio di scambiare due parole con chi è disposto a capire, almeno a provarci.
Chi lavora negli ospedali, si obietterà, è tenuto a diagnosticare, capire la malattia, prescrivere una cura, guarire e, laddove non sia possibile, alleviare le sofferenze fisiche. La medicina è una scienza razionale, in quanto tale ha dalla sua parte numeri, statistiche ed evidenze. Assumi un determinato farmaco, segui con scrupolo una certa terapia e tutto andrà a posto. A volte non esistono percorsi risolutivi, la medicina s’arrende e diventi un malato cronico. Da quel momento devi augurarti di trovare sulla tua strada professionisti che non abbiano perso la volontà di andare oltre l’oggettività della malattia e considerino il paziente che hanno di fronte nella sua soggettività.
Non dimentichiamo che sul lettino, sedute in sala d’attesa con un filo d’ansia, in ambulatorio dall’altra parte della scrivania del dottore, ricoverate nei reparti, ci sono persone con sentimenti e timori, che rimangono a volte annichilite di fronte a chi “somministra” spiegazioni con freddezza.
Per chiarire meglio il concetto, vorrei raccontare quanto mi è accaduto molti anni fa. Ero una bambina, quindi in quel caso il medico si rivolse ai miei genitori. Non avevo ancora nessun tipo di problema respiratorio, ma lui con spietato pragmatismo disse che i problemi sarebbero arrivati, tanto valeva farmi subito una tracheotomia, così non ci si sarebbe più pensato.
Trovo agghiacciante pensare di fare un buco nella trachea di una bambina (perché di questo si tratta, alla fine) che in quel momento non ne ha necessità, senza il minimo pensiero su quanto quell’intervento potrebbe influenzarne la vita. Lavorare a contatto con gli altri, ancor di più se questi “altri” hanno problemi di salute, implica dover affrontare momenti, compiti e responsabilità che non si risolvono con l’impassibilità di una “macchinetta che distribuisce le bibite”: poni un quesito e viene erogata automaticamente la risposta, arrivederci e grazie, avanti il prossimo.
Uno studio del 2002 ha rilevato che il tempo medio concesso a un paziente per parlare senza essere interrotto è di appena 92 secondi. Sarà aumentato? La media non credo, poi dipende. Dipende dalla sensibilità del professionista che ci si trova di fronte. È il singolo che fa la differenza, sempre, e la fa quando segue le linee guida che gli hanno impartito, ma non dimentica di instaurare una relazione umana, un ponte tra la medicina studiata sui libri e l’empatia per comprendere emozioni che sono altrettanto importanti, in alcuni casi perfino di più.
I percorsi diagnostici, terapeutici e assistenziali, le politiche sanitarie sempre più legate a vincoli di bilancio, da soli, non sono efficaci. Si ripete da anni come un mantra «in ospedale siamo dei numeri». Tempo fa ho sentito di episodi in cui i pazienti in corsia venivano chiamati e identificati con la patologia di cui soffrivano, non con il loro nome, neppure con il numero del letto che occupavano (non è granché neanche questo, ma sempre meglio un numero piuttosto che sentirsi chiamare, ad esempio, “colica renale”!). Non ci scappa il morto, eppure anche questa è malasanità.
Le difficoltà degli addetti ai lavori nel mettere in campo il cuore accanto alla razionalità esistono, non è sempre indifferenza, in certi casi è rassegnazione. Quanta buona volontà va sprecata quando si scontra con la burocrazia e la produttività, soprattutto da quando le Aziende Sanitarie sono gestite seguendo rigidamente criteri economici. L’hanno testimoniato diversi medici che hanno avuto la sventura di passare dall’altra parte della barricata. Si sono ammalati e allora hanno colto dettagli che nella frenesia del lavoro erano sfuggiti. Indossato di nuovo il camice bianco, hanno applicato le competenze umane acquisite che nessun libro di scienza avrebbe potuto insegnare loro.
Concludendo, mi preme precisare che il mio è un discorso generale, frutto di esperienze personali e confronti con amici che hanno avuto vicissitudini simili. Insomma, chi ha bisogno di rivolgersi di frequente alle strutture sanitarie parla suppergiù allo stesso modo e penso che questo sia il segno di un disagio percepito in maniera abbastanza diffusa su cui bisognerebbe riflettere.
Comunque gli esempi positivi ci sono, eccome e per fortuna! Ci sono ancora medici che se ti vedono abbacchiata nel corridoio del reparto, anche se sono di fretta, trovano cinque minuti per prendere una sedia, mettersi accanto a te e chiederti cosa c’è che non va, trovando le parole che non aggiustano una situazione che non può cambiare, ma che sono capaci di consolare un momento buio.
Ci sono ancora infermieri che la domenica ti portano un gelato al limone, perché un giorno di festa deve essere tale anche in ospedale; ci sono operatori della sanità con le mansioni più disparate che fanno il loro lavoro con un sorriso e non ti fanno sentire malato, anzi, cercano di migliorare il tuo quotidiano, quando capiscono che ci sono margini per poterlo fare.
Nel Preambolo della costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, firmata a New York nel 1946, la salute viene definita come «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale». La salute non è solo assenza di malattia.